Mario Pauletto, Casa Gaia Portobuffolè, settembre 2007: “Studi, prove e scarti d’atelier”

L’ATELIER

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Un momento della presentazione

Punto di partenza e d’arrivo dell’esposizione è la ricostruzione parziale dell’atelier di Mario Pauletto, chiave di lettura dell’intera mostra. L’atelier è un laboratorio: è lo spazio fisico in cui il pittore mette in essere le proprie idee. Non necessariamente quest’ultime nascono qui, esse si formano il più delle volte prima, nell’altro studio, quello con i libri, i francobolli, il computer con cui l’artista scrive il suo libro, per la strada, durante una conversazione, dopo o nel mentre di una visita in un museo o in una galleria, andando per funghi, vivendo in sostanza le proprie esperienze di vita quotidiana.

Nell’atelier ricostruito si esplicita la situazione del laboratorio in cui ci sono lavori finiti, altri incompleti, altri ancora lasciati a “riposare” per riprenderli forse o anche no, e poi i materiali di lavoro: stracci, carta, tele, faesiti, lastre di zinco, di ferro, linoleum, cartone, carte colorate, acrilici, terre nei vasi, oli, inchiostri tipografici, residui, oggetti appoggiati dove c’è un po’ di posto, recuperati per chissà quale idea che prima o poi si metterà in opera, intanto sono lì, pronti. Il laboratorio inoltre è un accomodamento di spazi continuo, cambia faccia a seconda che si dipinga, si stampi, si preparino basi, si costruiscano cornici…

Esso non è l’immagine esaustiva del pittore Mario Pauletto, uomo dai molteplici interessi e di cultura,  ma è fondamentale perché  suggerisce la costante della sua vicenda pittorica: il lavoro. Lavoro come esperienza quotidiana, continua, come ricerca, produzione, fatica, manualità, ripetizione di gesti ma anche volontà di non fermarsi nel conosciuto, lavoro come cambiamento, aggiornamento, sperimentazione.

Qui c’è il trascorrere di un  tempo proficuo, mai inutile passatempo, né hobby, nemmeno quando il pittore mette ordine, straccia ed elimina lavori, prove, materiali che non gli servono più: anche quest’operazione diventa un’azione artistica, critica e di scoperta, per esempio di un frammento che non è poi da buttare, di un supporto che potrebbe riutilizzare in modo diverso, di una carta stropicciata dalla tinta intrigante, di un pezzo di cartone che potrebbe diventare  texture.

Nell’atelier troviamo già la mostra con il suo cinquantennio e più di esperienze, dagli anni ’50 al 2003: in questi cinquanta anni la personalità di Pauletto cresce e si arricchisce continuamente in un indirizzo non monolitico e ripetitivo; cito solo alcuni passaggi fondamentali, non tutti presenti nella mostra: gli esordi impressionisti, la matita felice che fissa nei bar del paese volti ed espressioni, gli oli degli anni ’60 , la cosiddetta “maniera scura” caratterizzata dai bianchi squarcianti dei cieli burrascosi, (l’uso del bianco, la luce, è una costante nella produzione e figurativa e astratta di Pauletto), l’espressionismo kirkneriano e munchiano dei volti, l’attrazione di Sironi, e ancora l’informale, poi negli anni ‘70 l’accostamento al colore e all’astratto e successivamente alla transavanguardia. E’ un’esemplificazione semplicistica,  non cronologica e,  meno che meno esaustiva, dell’opera del pittore portogruarese visto che le esperienze si intersecano, si sovrappongono per cui ai paesaggi del sessanta corrisponde anche un lavoro a collage molto pop con una tavolozza vera, barattoli  e immagini ritagliate dai giornali. Certo è che Pauletto nel suo personalissimo percorso è ben attento alla sua società e presente  alla cultura artistica del suo tempo, in ogni fase della sua carriera. Non affronto nemmeno l’argomento tematiche: la mostra parla da sola, forse ne escono penalizzati i paesaggi, qui poco rappresentati per ragioni di spazio, basti dire che esse testimoniano un’aderenza forte alla vita nelle sue sfaccettature sia intime che sociali e politiche, ma anche un intento prettamente artistico nella ricerca della pittura pura che sfocia in un  lirismo coloristico. Credo che sia ancora valida una definizione di Luciano Padovese del ’95 in cui si dice che la produzione di M.P. è pervasa da un’“inquietudine vissuta a livello esteriore nella serenità di un costante sorriso, ma sostanzialmente segnato di interiorità morale che coglie la realtà mai del tutto pacifica”.

Veniamo  al titolo: Studi, prove e scarti d’atelier.

Di solito in una mostra si espongono quelli che si ritengono i risultati del lavoro di un artista. In questo caso Mario Pauletto ha scelto di aprire al visitatore un mondo dal quale è escluso: lo spazio privato relativo all’operare del pittore che studia, indaga, osserva, prende appunti “visivi”,cioè disegna, abbozza, inizia e poi lascia ciò che non lo soddisfa, prepara, non finisce, progetta, compone; ancora prova tecniche varie o, all’interno delle stesse modi diversi per arrivare allo stesso risultato, sperimenta supporti, materiali, colori, attrezzi, a volte con successo, secondo il suo punto di vista, e allora prosegue e moltiplica le sue opere oppure, appagata la curiosità del vedere cosa succede o riscontrata l’impercorribilità di una strada, si ferma a pochi esemplari. La prova è infatti ciò che si fa per verificare o per conoscere la qualità o la natura di qualcosa.

Quindi nella mostra, collocati spesso in situazione di parità troviamo matrice e stampa, stampa e prova d’artista, supporto e monotipo finito. A loro volta, in un indirizzo di continua ricerca ed evoluzione, la prova, la matrice e lo studio diventano scarti.

Lo scarto è in questo caso non solo il prodotto di mezzo di un processo produttivo dell’opera d’arte, come il supporto che è servito alla stampa, il disegno che ha abbozzato un’idea, perché  nella vita pittorica di Pauletto ci sono molti scarti anche tra i cosiddetti “risultati finali” o lavori finiti. Lo scarto è alto, l’eliminazione è frequente e serrata. È tutto ciò che per  il pittore o l’incisore non corrisponde in quel momento preciso  ai suoi canoni di composizione, di riuscita coloristica, di efficacia di messaggio.

E’ curioso scoprire che poi certi scarti non  sono veramente tali. Vorrei raccontare un aneddoto. Negli anni  ’60 Pauletto dipingeva nella casa di via Spalti  e aveva l’abitudine di fare pulizia dei suoi lavori, a volte stracciandoli, ma spesso buttandoli in un mucchio all’esterno della casa, che poi eliminava. Gli successe anni dopo  di entrare nella casa dei vicini e di trovare appesi alle pareti dei paesaggi apprezzabili di quell’epoca, i suoi scarti,che anche lui dovette riconoscere essere dei buoni pezzi. Questo per sottolineare un altro aspetto della personalità artistica dell’artista portogruarese.: un’ autocritica severa ed inflessibile.

Poi ci sono gli altri scarti, quelli prodotti dalla vita domestica e  utilizzati in arte per il loro valore estetico o di messaggio: anche di questi Pauletto ha fatto largo uso, e già li troviamo in quel famoso quadro con le uova del ’66: vi invito a cercarli qua e là nella mostra.

Tornando al titolo della mostra: STUDI, PROVE E SCARTI D’ATELIER è quindi una perifrasi della sua vita artistica. In una parola RICERCA, non sperimentazione fine a se stessa ma frutto di un pensiero riflessivo, di una visione spesso dolorosa ma appassionata dell’umanità, di una insoddisfazione esistenziale, ma anche di un gioco ironico a volte sorridente, una ricerca che  ha portato Mario Pauletto lontano dalle mode, dal mercato facile, una ricerca  che a noi regala grandi cose: piacere estetico, novità, sussulti, riflessioni non solo artistiche, valori estetici e umani.

E’ necessario a questo punto un rapido excursus sulle opere esposte in mostra e sull’ allestimento che accosta i lavori in un modo piuttosto che in un altro. Il percorso si snoda secondo i criteri dettati dal titolo, associando spesso opere tra loro non contemporanee, d’altronde la logica della ricerca comporta una sperimentazione perenne: prima la sala dei disegni, poi gli omaggi, quindi i monotipi,  e, al piano superiore, le incisioni, i volti, per terminare nella sala grande con  materiali di diversa tipologia.

La prima sala ospita disegni. Il disegno è considerato per eccellenza la tappa creativa iniziale di ogni attività artistica, in quanto uno schizzo traduce in forma visiva un concetto o un progetto che poi si svilupperà in forme più complesse. Il disegno misura l’abilità e l’originalità di un artista. Utile per formare mano e occhio, è fondamentale per buttar giù un’idea o per codificare una teoria.

Sono presenti degli schizzi a matita degli anni ’50 presi nei bar, freschi e rapidi, poi paesaggi dal vero, appunti di viaggio confluiti spesso nelle incisioni o negli oli; molto interessanti gli studi a pastello sugli accostamenti e le reciproche risposte tra colori caldi e freddi, alcuni esperimenti con inchiostro tipografico e china dal forte impatto espressionistico ed emotivo e le piccole chine trascinate col cotone. Nella bacheca due quaderni fitti di segni, piccoli disegni, quasi un campionario raccolto nel tempo, fornace di idee, stesi per gioco o per passatempo, o per esercizio di mano e di testa.

Il segno di M.P. è fin dagli anni ’50 non accademico, dichiara una personalità decisa, dai tratti essenziali, più spigolosi che curvilinei, molto incisivi.

La seconda sala, che raccoglie i “d’apres”  è molto interessante e intrigante se ci si avvicina al concetto di copia e di omaggio nel modo corretto. Oggi non è più accettato il valore di una copia pittorica da quando l’avvento della fotografia ha consentito riproduzioni in formato reale delle opere d’arte, eppure in tutta la storia dell’arte si sono fatte copie e  gli artisti non hanno mai potuto prescindere dai loro predecessori.

Che cos’è l’omaggio: è un’espressione di ammirazione e di stima di un artista per un altro che si esplica nell’atto di ricreare l’immagine allo scopo di conoscerla più profondamente in ogni sua parte. L’esecuzione di un omaggio comporta infatti che il pittore senta e pensi visivamente, confrontandosi con i problemi posti dalla forma e dal colore dell’originale. Colui che copia in realtà  esamina e scopre il segreto del suo predecessore.

Dipingere omaggi è quindi anche un metodo di studio e fonte di soluzioni formali. Cézanne diceva che sarebbe grottesco immaginare che l’artista cresca alla cieca come un fungo, quando ha a disposizione generazioni di maestri dalle cui opere può trarre profitto. Risalire alle fonti, in questo caso ad immagini la cui fama è consolidata,  è il procedimento più naturale che si possa seguire, d’altra parte nessun scienziato, nessuno storico scriverebbe un saggio senza aver prima consultato le pubblicazioni precedenti.

Nel passato Tiziano e Rubens attinsero sfacciatamente dagli altri, più recentemente Ricasso ne è un esempio eclatante (egli iniziò la sua indagine interpretativa tra i 60/70anni, età in cui Cezanne la smise). I d’apres di Mario Pauletto si devono considerare riletture, reinterpretazioni appassionate delle opere originarie, nelle quali il pittore inserisce autoritratti, ribalta le soluzioni coloristiche, rivisita il pezzo con tecniche diverse mettendosi alla prova e riversando nell’omaggio la tecnica o la sensibilità coloristica del momento. Quanto più ci allontaniamo dalle prime esperienze, da considerare veri e propri studi, mi riferisco ad un pastello tratto da Renoir, ora in collezione privata, molto fedele all’originale, tanto più gli omaggi si fanno sempre più profondamente rivisitati. I modelli sono i maestri che Pauletto considera tali per la sua crescita pittorica, Sironi, Munch, Goya, ma anche altri che più semplicemente lo hanno colpito o hanno stimolato una sfida, Picasso, Morlotti, Pollock, Antonello da Messina. Utile la lettura del testo “L’arte nata dall’arte” per cogliere a fondo l’importanza di questa pratica.

Nella terza sala è collocata forse una delle produzioni più originali per l’affinamento della tecnica, la sperimentazione che ne è avvenuta e i risultati di profonda varietà nelle forme, ma soprattutto di espressione  e lirismo: il monotipo.

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Mario Pauletto nell'atto di realizzare un monotipo

Il monotipo è una forma di stampa ibrida, che mescola pittura e calco e che può dar luogo ad uno o due esemplari, dei quali il secondo dalle tinte più tenui del primo. La difficoltà sta sia nella preparazione del supporto che può essere di vari materiali, sia nella composizione e nella previsione del risultato,  una volta che carta e supporto sono passati al torchio. E’ una tecnica che comporta quindi una buona progettualità e soprattutto una conoscenza approfondita degli effetti che i materiali usati, siano essi carta, nailon, filo, spago, terra danno una volta  mescolati ai colori e sottoposti alla pressione del torchio. Si producono molti monotipi ma anche se ne scartano la maggior parte, perché la casualità ha molto margine.

Al piano superiore si riprende con la grafica: l’incisione. E’ un vero e proprio viaggio nell’invenzione, nel senso latino di “scoperta”: dai forti linoleum espressionisti degli anni ’60 alla tecnica tradizionale dell’acquaforte e dell’acquatinta che  si dà una veste nuova e elegante stampandosi su tela misto lino, con vibranti effetti chiaroscurali e traslucidi, oppure si fa vedere in controstampa. L’acquatinta a  quattro  colori simultanei su unica lastra testimonia un procedimento poco in uso che obbliga a pulire la lastra varie volte con accuratezza, quanti i colori che si vogliono stendere, facendo attenzione che non si miscelino tra loro, sporcandosi.

E’ quasi uno scherzo alla tradizione la stampa ad imitazione dell’acquaforte, incisa con sgorbie su una lastra di faesite precedentemente preparata: i tratti appaiono forti, vigorosi e molto in rilievo. Infine le prove su tanti e diversi materiali, come il compensato, la lastra di ferro, ecc.

Dal bianco e nero ritorniamo al colore con un’immersione nell’umanità a volte profondamente angosciata a volte lieve dei volti. Anche in questo caso il lavoro si è protratto per tutto l’arco della carriera del pittore contando centinaia di volti, a tempera, acrilico, olio, china… Sono espressivi, dagli occhi che sembrano laghi, dai colori per lo più innaturali, giocati nei terziari e nei complementari, con tinte nuove e rare. Difficile stabilire dove sta il buono e dove lo scarto. Tutto è espressione, anche la maschera, tema ricorrente nella pittura di Pauletto, emblema di un’umanità che si nasconde a se stessa, anche il pezzetto semistracciato di un piccolo volto, in cui si intravede un solo occhio.

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il trittico (1)

Infine l’ultima sala, dominata dal trittico sulla guerra, la fame e l’inquinamento, che guarda di fronte a sé una serie tratta dalla tematica del Biafra, fonte di ispirazione per il pannello sulla fame. La stanza sembra essere  controllata  dai due mascheroni dell’87, ed è completata da lavori realizzati con un materiale tipicamente di scarto, il cartone ondulato degli scatoloni di imballaggio e da alcune tempere su carta e su faesite. Arredano la sala infine oggetti d’uso quotidiano e dei cubi che l’artista ha ricreato utilizzando le carte di scarto preparate per i suoi mascheroni o per i collage.

I tre pannelli quadrati alti 1.20 metri concepiti  come bozzetti per un lavoro che doveva avere dimensioni di tre metri in altezza e nove in lunghezza sono stati realizzati nel periodo che va dagli anni ’70 all’80, utilizzando tutti i materiali di scarto  di lavori precedenti: ritagli di figure, parti di carte colorate facendo monotipi, ecc, oltre a materiali vari raccolti per il loro significato simbolico.

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il trittico (2)

Soprattutto agli inizi degli anni ’70 la riflessione dell’artista si era fermata a lungo sugli effetti tragici della guerra del Biafra, che dichiaratasi indipendente nel ’67 dalla Nigeria era poi dovuta rientrare nella confederazione nigeriana. All’epoca erano sotto gli occhi di tutti le immagini dei bambini scheletrici per la denutrizione e con la pancia gonfia e delle morti per fame. Guerra e fame riportano Pauletto  tra l’altro alle esperienze personali, degli anni ’40- ’45  quando era ventenne, e producono prima una serie di disegni e di linoleum che rappresentano uomini e bambini come cadaveri viventi, monito e sofferenza vissuta con essi;  poi l’osservazione del proprio mondo e della vita della società occidentale ben diversa da quella dell’allora Terzo mondo, lo induce a lanciare un ironico richiamo  ai suoi contemporanei che inquinano il proprio mondo, che si fanno tradire dalla droga, che amano la civiltà della macchina al punto di lasciarsi sedurre mortalmente. I tre pannelli si occupano quindi della guerra, della fame e dell’inquinamento con una sconcertante e pessimistica attualità: sono passati infatti già trent’anni dalla loro realizzazione.

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il trittico (3)

L’impianto per certi aspetti è razionale, è nato come una successione di pagine di giornale che l’osservatore sfoglia però senza dover tornare indietro, perché tutto rimane inevitabilmente sotto i suoi occhi, non gli è permesso di girare pagina e di dimenticare. Mette insieme, in un mixage di collage e pittura, pezzi di lavori dei primi anni ’70 con prodotti dell’inizio ’80. Il fondo è bianco, come la carta del giornale dove si scrive e su cui chiunque può aggiungere, è bianco come il colore che accompagna sempre i lavori di Pauletto. Le immagini sono inserite in rettangoli, quasi uno sforzo di dominare il problema, di dare ordine a qualcosa di troppo grande, quasi a voler trovare una soluzione incasellando, classificando; ma qui non parliamo solo di problemi, ma della natura umana, dice Pauletto con quel cartello “Lavori in corso”: la guerra ci sarà sempre, ci saranno sempre quelli che pagano per i potenti. L’uomo, nonostante tutto, tende a farsi del male perché  guarda  poco più in là del proprio naso e,  per esempio, fuma senza pensare alle conseguenza del suo gesto.

In realtà le immagini e i loro significati non cedono alla cornice in cui sono chiuse ma ne escono, sbordano e si impongono con la loro fisicità, urlano verità e si fanno simboli. E’ necessario fermarsi qui davanti non solo a guardare oltre l’impatto iniziale già di per sé fortemente comunicativo sia esteticamente che nei contenuti (tutti possono capire il messaggio che è così evidente!), ma poi bisogna cogliere le metafore a volte chiare altre volte sottili, sul filo di ricordi o legate al patrimonio comune di immagini che ci riconosce europei, ancora a filoni storici lontani come le file dei guerrieri di varie epoche, (soldatini?),  testimoni di masse mandate alla guerra da sempre, che ironicamente il pittore mette in una  foto ricordo, collocando appena sopra una fila di teschi dal significato piuttosto crudo ma realistico.

L’osservatore si trova coinvolto dal gioco delle pagine e spinto a cercare i collegamenti, siano quelli pensati dall’autore ma anche quelli che egli stesso può inventare sul filo delle proprie esperienze e conoscenze, per cui il fruitore qui diventa anch’esso artista aggiungendo valore all’opera.

Sono necessarie alcune note di spiegazione di elementi che possono risultare forse più oscuri di altri e qui li affrontiamo con ordine: nel pannello dedicato alla guerra campeggia la testa di un soldato che sembra piuttosto un robot,  una macchina, mentre il crocefisso rappresenta il sacrificio dell’umanità. Sopra migliaia di uomini cercano la fuga, inutile, come impazzite formiche prima di un temporale e sotto campeggia un campo di altrettante numerosissime croci e ancor più giù,  a ribadire il concetto di sofferenza le salme stese dei morti. Il passare del tempo e il ripetersi vano delle guerre è dato dalle serie di soldati che nelle varie epoche sono scesi in battaglia,  non ultima l’effige del fungo atomico di Hiroshima. Poi le lettere grandi che collocate strategicamente, fungono sia da aspetto puramente grafico ma sono anche la firma dell’autore, in questo pannello l’”ET…” sta anche per “eccetera” : le guerre continueranno, i problemi dell’uomo sono anche altri.

Nel pannello raffigurante la fame di nuovo un simbolo cristiano, in chiave diversa dal precedente: cristianesimo come missione, come aiuto umanitario vero. In un angolo in alto a destra un cielo con un sole spento, morto perché per chi è denutrito e senza speranza di riscatto umano e sociale non c’è luce né speranza, speranza rappresentata anche dal cielo vuoto poco più in là e dalla lettera “L…” che sottintende la parola “luce”. Ma ciò che colpisce di più è quell’ umanoide che con il suo braccio deforme indica alla sua sinistra un macabro scambio 4 x 2 = ti do quattro neri per due bianchi. Sotto ancora, quasi un rimando, come tanti altri nell’opera, alla “Poesia visiva” due collage:una pagina con una scrittura orientale e uno spartito musicale, il primo lingua sconosciuta ai più, simbolo dell’incomunicabilità, l’altro linguaggio universale che non basta però ad unire i popoli, e poi, ironicissimo, il cartello di pericolo”lavori in corso” con riferimento all’O.N.U. per dire che tanto si parla ma in sostanza non si risolve e quindi, ritornando allo spartito, la musica è sempre la stessa.

Infine l’inquinamento ovvero la capacità dell’uomo di autodistruggersi anche con le proprie invenzioni, di per sé buone, quasi sempre. Campeggiano gli elementi tipici del tema, oggi per noi non nuovi, ma teniamo presente che negli anni settanta si iniziava appena a parlare di ecologia in maniera seria e consapevole, perché in precedenza si pensava che la natura fosse in grado di smaltire tutte le scorie che l’attività umana produceva.

A dir il vero in questo pannello Pauletto si ferma soprattutto sui costumi più strettamente sociali e venefici per l’individuo. Il fumo è un elemento dominante sia esso delle fabbriche, delle automobili che con sinistra attualità sono mostrate in un groviglio mortale, quasi una previsione amaramente realistica dell’oggi e dell’incapacità umana di sfruttare al meglio il progresso. Il fumo è anche quello delle deviazioni come il tabacco e la droga. Angosciante e inetto l’uomo dietro le sbarre di una rete invalicabile con la sigaretta accesa al quale si dice “fuma!” e ancora un cartello stradale di monito, così come in un altro pannello: “pericoloso, rallentare!”. Ma abbiamo rallentato dagli anni settanta ad oggi?

Finiamo il discorso, che non è sicuramente esaustivo, con qualche nota tecnica: negli anni ‘70 e ‘80 varie correnti si affacciano nella vita artistica italiana, pensiamo alla poesia visiva,  alla pop art, alla transavanguardia, con il suo recupero libero del passato e la rivalutazione della singola opera d’arte: anche in questo caso M.P. c’è, è perfettamente presente al suo tempo, non arriva più tardi, arriva di suo. Per quanto riguarda la composizione il gioco è calibrato, a colori scabri si accostano tinte pacate, alla geometria si sovrappone il superamento dei limiti, il ritmo è scandito dal susseguirsi dei quadri nel quadro e della modularità delle immaginette ripetute, quasi “santini” laici.

Non mi soffermo sui mascheroni ben inseriti nell’esperienza della transavanguardia perché parlano da soli. Un accenno alle tempere per sottolineare come la scelta dell’incollaggio su faesite di alcune sia andata a scapito delle molte realizzate ma lasciate su carta, quindi in qualche modo scartate, tempere astratte belle, molto colorate e gioiose, e ai cartoncini, così li chiamo, scherzi di cartone, piccole composizioni di collage anch’esse giocose e particolarmente suggestive, dove lo scarto è il materiale protagonista e produce un effetto piacevole che mitiga, anche se non ci fa dimenticare il monito che ci siamo lasciati dietro poco più in là.

Tiziana Pauletto

Luigi Marcon a Gruaro, 3 Settembre 2005

Luigi Marcon è un viaggiatore sentimentale: qualunque sia la sua destinazione, esplora il paesaggio attratto dalla ricerca dell’ autentico e dell’inviolato. Curiosità e sentimento muovono i suoi passi in cerca  di luoghi nascosti o di punti di vista inusuali. Nel suo camminare (e quale altro modo di spostarsi può concedergli di captare la varietà dei colpi d’occhio, i mutamenti d’atmosfera, di luci, ecc.?) Marcon si fa assorbire dal paesaggio. Contemplazione e partecipazione fanno sì che immagine naturale e mentale coincidano, che le forme della natura vivano e si trasfigurino insieme: come scrive in un suo saggio Raffaele Milani “Il paesaggio e l’immaginazione procedono insieme, solerti e generosi amici”. Quella serie di elementi separati che formano un paesaggio diventano  un unicum di percezioni, ricordi e sentimenti: ci  troviamo di fronte ad alberi solitari o a scorci di case isolate, a corsi d’acqua, a castelli, ad abbazie quasi per caso, come se fossimo giunti in quei luoghi di soppiatto e li guardassimo da dietro una siepe, immersi in una luce a volte intensa, estiva, a volte avvolti nelle brume autunnali, attenti a non far rumore, a respirare piano per non turbare quei luoghi assorti. Ci sembra di ricevere un dono particolare: la visione di un attimo irripetibile che  l’incisore ha saputo fermare, catturandolo con uno sguardo pensoso e proiettandolo in un tempo sospeso. Proviamo una meraviglia devota  per un paesaggio dove l’uomo non è mai presente, ma ha lasciato le sue tracce più vive. Alla natura di Marcon appartengono aspetti di sacralità, di inviolabilità che sono propri dei caratteri introspettivi, il cui dialogo con il creato è esclusivo, intimo.

Un altro aspetto che non deve stupire nella vasta produzione incisoria dell’artista è la varietà dei paesaggi: se viaggiare è scoprire, viaggiare è anche consegnare alla memoria, conservare emozioni, custodire un’apparenza che muta non solo per il variare della luce nel giorno o delle stagioni, ma anche per gli accidenti naturali e ancor più, purtroppo, per l’azione distruttiva dell’uomo. Queste opere si caricano quindi di un ulteriore valore, non artistico, ma storico: sono un documento. Pur descrivendo un particolare luogo  e rendendolo riconoscibile, essi trasmettono la commozione che la natura sa dare quando è guardata con gli occhi dello spirito. E’ l’esperienza emozionale dell’artista insieme alla sua grande ed inequivocabile maestria nell’arte dell’incisione che ce la procura.

Tra le varie tecniche calcografiche Marcon  predilige la combinazione di acquaforte ed acquatinta: la prima fissa la struttura disegnativa, mentre la seconda riempie le superfici comprese tra i segni con mezzi toni e varie gradazioni, che si espandono di solito per zone campite nettamente, in quanto si lavora la lastra con pennello e  vernice e quindi non si  ottengono passaggi chiaroscurali continui. L’artista  conosce così bene la tecnica incisoria che riesce a produrre la massima resa pittorica e  sfumature le più sottili, attenuando le differenze nette tra una campitura e l’altra. Ottiene questo risultato combinando un segno che tratteggia largo,  obliquo e libero, senza pentimenti, fresco e rapido, sfruttando   linee che muovono le zone troppo compatte, e procedendo per continue coperture e morsure, almeno quattro o cinque, anche se sembrerebbero di più, che, passando dal bianco assoluto al nero per una varia gamma di grigi, producono in chi guarda la sensazione di “vedere a colori”.

Non bastano disegno  e campiture di varie gradazioni a rendere così “veri” i paesaggi di Marcon, direi quasi più veri della realtà. Il tutto è regolato dalla sapiente composizione che sa sfruttare i giochi dei contrasti luminosi e gli equilibri e i rimandi tra zone chiare e  scure.

La poesia scaturisce quando l’intento descrittivo si ferma e lascia spazio all’immaginazione: tecnicamente ciò si traduce in un segno che suggerisce, piuttosto che disegnare minuziosamente tutti i contorni e le forme, per cui il tronco dell’albero sale e la chioma si intuisce, nel prato si alzano masse di varia densità, cespugli quasi astratti, la casa ha porte e finestre, ma di quest’ultime si vede solo una macchia bianca contro un muro nero, spiraglio di luce e di aria; aria che muove le composizioni, che sfiora  e attraversa tutto, alleggerendo anche le forme solide, e che con le sue atmosfere  ci riporta in una tradizione tonale tipicamente veneta.

“…Nel suo camminare Marcon si fa assorbire dal paesaggio. Contemplazione e partecipazione fanno sì che immagine naturale e mentale coincidano, che le forme della natura vivano e si trasfigurino insieme. E’ un attimo irripetibile che  l’artista sa fermare, catturandolo con uno sguardo pensoso e proiettandolo in un tempo sospeso: alberi solitari, scorci di case isolate, corsi d’acqua, castelli, abbazie, immersi in una luce a volte intensa, estiva a volte velati dalle brume autunnali…Da qui scaturisce la sua poesia.”

Tiziana Pauletto

Note biografiche:

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L’albero ED04, 397×296 mm

Luigi Marcon, nato a Tarzo nel 1938, opera ed espone in permanenza a Vittorio Veneto, Saletta della Grafica e laboratorio di incisione in via Manin, 39. Dal 1960 partecipa a molte rassegne di grafica nazionali ed internazionali conseguendo importanti riconoscimenti;   allestisce numerose personali in Italia e all’estero. Si è dedicato inoltre a lungo all’insegnamento di tecniche calcografiche. Nella sua principale attività, oltre che pittore, ha realizzato oltre 4000 matrici. Ne esegue personalmente la stampa con torchio a stella, normalmente in venti esemplari e ne biffa la matrice a tiratura ultimata.