Il monotipo in mostra: Nelle case si gioca, si suona, si sogna…

Nelle case si gioca, si suona, si sogna…
Appunti sul monotipo
Gruaro 29 agosto 2015 via Roma Scuola secondaria sala del pianoterra
Il monotipo per me è innanzi tutto una modalità di pensiero e rispecchia, nel suo processo di creazione, la vita e la realtà delle cose: ci sforziamo di progettare e programmare la nostra esistenza, ci poniamo obiettivi e vogliamo controllare i nostri risultati, ma l’imprevisto cambia spesso le nostre previsioni. Il monotipo è una tecnica che dipende in una certa parte dalla casualità: umidità della carta e dell’ambiente, pressione del torchio, quantità di colore e altre variabili determinano il prodotto finale per cui il risultato è sempre una sorpresa. Il momento in cui si alza il foglio su cui si è stampato è intrigante ed è sempre atteso con una certa trepidazione: a volte l’attesa è ricompensata e altre delusa.
In quest’arte c’è un’infinità di somiglianze con la realtà umana, che ha molteplici sfumature ed è spesso impenetrabile: ti capita di notarlo quando sfrutti le impressioni “fantasma”, ovvero le stampe dalla stessa matrice successive alla prima, e le utilizzi per creare ulteriori composizioni che contengono il ricordo dell’iniziale ma presentano altre forme e aggiungono tinte che scolorano su quelle preesistenti in sfumature difficilmente ricreabili.
E’il monotipo lo specchio della vita che è, in ogni cosa e in ogni momento, unica e irripetibile: non è replicabile perché il supporto si perde e una seconda impressione del torchio non sarà mai uguale alla prima.
In secondo luogo questa tecnica consente massima libertà nel fare, perché si possono variare supporti e materiali adoperati per l’”impressione”, oltre che scegliere diverse modalità per ricavare immagini, siano esse concrete o astratte.
E’ un grande allenamento di composizione e di ragionamento, intesi anche come esercizio di previsione dei possibili esiti.
E’ un imparare ad affrontare delusioni: se penso a tutte le volte che ero convinta di aver costruito una serie di ottimi effetti e poi, alzato il foglio, c’era il pasticcio!
E’ inoltre una sfida con le proprie capacità nell’utilizzare materiali e colori lavorando “al contrario”: qualsiasi disegno infatti uscirà ribaltato.

La produzione che presento nella mostra di Gruaro va dal 2008 ad oggi ed è un campione di una parte del materiale stampato in questo arco di tempo. Gli esemplari esposti sono scelti tra serie di prove e molti fogli prodotti per ogni genere di immagine: non sono quindi gli unici pezzi relativi allo stesso lavoro.
Varie le tecniche sperimentate: da quella “a togliere”, usata per esempio da Matisse, a quelle per sovrapposizione. I supporti di matrice sono i più svariati così come le carte e gli altri materiali (tra questi la tela) su cui stampo, idem per quelli utilizzati per ottenere i vari effetti: cartoncino, stoffe, carta igienica, cartoncini di riciclo, legno, polveri,spaghi, ecc.
Preferisco il colore a olio agli inchiostri per la sua malleabilità e facilità di miscela.
Concludendo, il monotipo mi piace perché consente la massima libertà nell’uso del colore e nella composizione, è un “gioco” pensato.

In questa esposizione si possono anche vedere e toccare degli oggetti che sono rivisitati nel loro utilizzo attraverso il collage con miei monotipi: una sedia, una chitarra acustica, un pallone da basket e un piccolo puzzle a dodici cubi. Questi oggetti rispondono, come del resto le stampe, al tema della mostra: Nelle case si gioca, si suona, si sogna…
Mi piaceva l’idea di far riflettere sull’ambiguità che si genera quando un oggetto utilizzato per giocare, suonare o riposarsi, si trasforma in opera d’arte e apparentemente perde il suo scopo primario: è la nuova definizione che dà valore alla palla, alla chitarra e alla sedia o esse permangono nella condizione di utilizzo per cui sono state originariamente prodotte?
Si potrà suonare quella chitarra, ci si potrà riposare sulla sedia e si lancerà il pallone? La risposta è la stessa che genera il piccolo puzzle composto da sei monotipi che il pubblico è invitato a comporre: sì.
Il visitatore farà quello che preferisce: se avrà voglia giocherà con il puzzle, si siederà e suonerà la chitarra…

Mario Pauletto, Casa Gaia Portobuffolè, settembre 2007: “Studi, prove e scarti d’atelier”

L’ATELIER

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Un momento della presentazione

Punto di partenza e d’arrivo dell’esposizione è la ricostruzione parziale dell’atelier di Mario Pauletto, chiave di lettura dell’intera mostra. L’atelier è un laboratorio: è lo spazio fisico in cui il pittore mette in essere le proprie idee. Non necessariamente quest’ultime nascono qui, esse si formano il più delle volte prima, nell’altro studio, quello con i libri, i francobolli, il computer con cui l’artista scrive il suo libro, per la strada, durante una conversazione, dopo o nel mentre di una visita in un museo o in una galleria, andando per funghi, vivendo in sostanza le proprie esperienze di vita quotidiana.

Nell’atelier ricostruito si esplicita la situazione del laboratorio in cui ci sono lavori finiti, altri incompleti, altri ancora lasciati a “riposare” per riprenderli forse o anche no, e poi i materiali di lavoro: stracci, carta, tele, faesiti, lastre di zinco, di ferro, linoleum, cartone, carte colorate, acrilici, terre nei vasi, oli, inchiostri tipografici, residui, oggetti appoggiati dove c’è un po’ di posto, recuperati per chissà quale idea che prima o poi si metterà in opera, intanto sono lì, pronti. Il laboratorio inoltre è un accomodamento di spazi continuo, cambia faccia a seconda che si dipinga, si stampi, si preparino basi, si costruiscano cornici…

Esso non è l’immagine esaustiva del pittore Mario Pauletto, uomo dai molteplici interessi e di cultura,  ma è fondamentale perché  suggerisce la costante della sua vicenda pittorica: il lavoro. Lavoro come esperienza quotidiana, continua, come ricerca, produzione, fatica, manualità, ripetizione di gesti ma anche volontà di non fermarsi nel conosciuto, lavoro come cambiamento, aggiornamento, sperimentazione.

Qui c’è il trascorrere di un  tempo proficuo, mai inutile passatempo, né hobby, nemmeno quando il pittore mette ordine, straccia ed elimina lavori, prove, materiali che non gli servono più: anche quest’operazione diventa un’azione artistica, critica e di scoperta, per esempio di un frammento che non è poi da buttare, di un supporto che potrebbe riutilizzare in modo diverso, di una carta stropicciata dalla tinta intrigante, di un pezzo di cartone che potrebbe diventare  texture.

Nell’atelier troviamo già la mostra con il suo cinquantennio e più di esperienze, dagli anni ’50 al 2003: in questi cinquanta anni la personalità di Pauletto cresce e si arricchisce continuamente in un indirizzo non monolitico e ripetitivo; cito solo alcuni passaggi fondamentali, non tutti presenti nella mostra: gli esordi impressionisti, la matita felice che fissa nei bar del paese volti ed espressioni, gli oli degli anni ’60 , la cosiddetta “maniera scura” caratterizzata dai bianchi squarcianti dei cieli burrascosi, (l’uso del bianco, la luce, è una costante nella produzione e figurativa e astratta di Pauletto), l’espressionismo kirkneriano e munchiano dei volti, l’attrazione di Sironi, e ancora l’informale, poi negli anni ‘70 l’accostamento al colore e all’astratto e successivamente alla transavanguardia. E’ un’esemplificazione semplicistica,  non cronologica e,  meno che meno esaustiva, dell’opera del pittore portogruarese visto che le esperienze si intersecano, si sovrappongono per cui ai paesaggi del sessanta corrisponde anche un lavoro a collage molto pop con una tavolozza vera, barattoli  e immagini ritagliate dai giornali. Certo è che Pauletto nel suo personalissimo percorso è ben attento alla sua società e presente  alla cultura artistica del suo tempo, in ogni fase della sua carriera. Non affronto nemmeno l’argomento tematiche: la mostra parla da sola, forse ne escono penalizzati i paesaggi, qui poco rappresentati per ragioni di spazio, basti dire che esse testimoniano un’aderenza forte alla vita nelle sue sfaccettature sia intime che sociali e politiche, ma anche un intento prettamente artistico nella ricerca della pittura pura che sfocia in un  lirismo coloristico. Credo che sia ancora valida una definizione di Luciano Padovese del ’95 in cui si dice che la produzione di M.P. è pervasa da un’“inquietudine vissuta a livello esteriore nella serenità di un costante sorriso, ma sostanzialmente segnato di interiorità morale che coglie la realtà mai del tutto pacifica”.

Veniamo  al titolo: Studi, prove e scarti d’atelier.

Di solito in una mostra si espongono quelli che si ritengono i risultati del lavoro di un artista. In questo caso Mario Pauletto ha scelto di aprire al visitatore un mondo dal quale è escluso: lo spazio privato relativo all’operare del pittore che studia, indaga, osserva, prende appunti “visivi”,cioè disegna, abbozza, inizia e poi lascia ciò che non lo soddisfa, prepara, non finisce, progetta, compone; ancora prova tecniche varie o, all’interno delle stesse modi diversi per arrivare allo stesso risultato, sperimenta supporti, materiali, colori, attrezzi, a volte con successo, secondo il suo punto di vista, e allora prosegue e moltiplica le sue opere oppure, appagata la curiosità del vedere cosa succede o riscontrata l’impercorribilità di una strada, si ferma a pochi esemplari. La prova è infatti ciò che si fa per verificare o per conoscere la qualità o la natura di qualcosa.

Quindi nella mostra, collocati spesso in situazione di parità troviamo matrice e stampa, stampa e prova d’artista, supporto e monotipo finito. A loro volta, in un indirizzo di continua ricerca ed evoluzione, la prova, la matrice e lo studio diventano scarti.

Lo scarto è in questo caso non solo il prodotto di mezzo di un processo produttivo dell’opera d’arte, come il supporto che è servito alla stampa, il disegno che ha abbozzato un’idea, perché  nella vita pittorica di Pauletto ci sono molti scarti anche tra i cosiddetti “risultati finali” o lavori finiti. Lo scarto è alto, l’eliminazione è frequente e serrata. È tutto ciò che per  il pittore o l’incisore non corrisponde in quel momento preciso  ai suoi canoni di composizione, di riuscita coloristica, di efficacia di messaggio.

E’ curioso scoprire che poi certi scarti non  sono veramente tali. Vorrei raccontare un aneddoto. Negli anni  ’60 Pauletto dipingeva nella casa di via Spalti  e aveva l’abitudine di fare pulizia dei suoi lavori, a volte stracciandoli, ma spesso buttandoli in un mucchio all’esterno della casa, che poi eliminava. Gli successe anni dopo  di entrare nella casa dei vicini e di trovare appesi alle pareti dei paesaggi apprezzabili di quell’epoca, i suoi scarti,che anche lui dovette riconoscere essere dei buoni pezzi. Questo per sottolineare un altro aspetto della personalità artistica dell’artista portogruarese.: un’ autocritica severa ed inflessibile.

Poi ci sono gli altri scarti, quelli prodotti dalla vita domestica e  utilizzati in arte per il loro valore estetico o di messaggio: anche di questi Pauletto ha fatto largo uso, e già li troviamo in quel famoso quadro con le uova del ’66: vi invito a cercarli qua e là nella mostra.

Tornando al titolo della mostra: STUDI, PROVE E SCARTI D’ATELIER è quindi una perifrasi della sua vita artistica. In una parola RICERCA, non sperimentazione fine a se stessa ma frutto di un pensiero riflessivo, di una visione spesso dolorosa ma appassionata dell’umanità, di una insoddisfazione esistenziale, ma anche di un gioco ironico a volte sorridente, una ricerca che  ha portato Mario Pauletto lontano dalle mode, dal mercato facile, una ricerca  che a noi regala grandi cose: piacere estetico, novità, sussulti, riflessioni non solo artistiche, valori estetici e umani.

E’ necessario a questo punto un rapido excursus sulle opere esposte in mostra e sull’ allestimento che accosta i lavori in un modo piuttosto che in un altro. Il percorso si snoda secondo i criteri dettati dal titolo, associando spesso opere tra loro non contemporanee, d’altronde la logica della ricerca comporta una sperimentazione perenne: prima la sala dei disegni, poi gli omaggi, quindi i monotipi,  e, al piano superiore, le incisioni, i volti, per terminare nella sala grande con  materiali di diversa tipologia.

La prima sala ospita disegni. Il disegno è considerato per eccellenza la tappa creativa iniziale di ogni attività artistica, in quanto uno schizzo traduce in forma visiva un concetto o un progetto che poi si svilupperà in forme più complesse. Il disegno misura l’abilità e l’originalità di un artista. Utile per formare mano e occhio, è fondamentale per buttar giù un’idea o per codificare una teoria.

Sono presenti degli schizzi a matita degli anni ’50 presi nei bar, freschi e rapidi, poi paesaggi dal vero, appunti di viaggio confluiti spesso nelle incisioni o negli oli; molto interessanti gli studi a pastello sugli accostamenti e le reciproche risposte tra colori caldi e freddi, alcuni esperimenti con inchiostro tipografico e china dal forte impatto espressionistico ed emotivo e le piccole chine trascinate col cotone. Nella bacheca due quaderni fitti di segni, piccoli disegni, quasi un campionario raccolto nel tempo, fornace di idee, stesi per gioco o per passatempo, o per esercizio di mano e di testa.

Il segno di M.P. è fin dagli anni ’50 non accademico, dichiara una personalità decisa, dai tratti essenziali, più spigolosi che curvilinei, molto incisivi.

La seconda sala, che raccoglie i “d’apres”  è molto interessante e intrigante se ci si avvicina al concetto di copia e di omaggio nel modo corretto. Oggi non è più accettato il valore di una copia pittorica da quando l’avvento della fotografia ha consentito riproduzioni in formato reale delle opere d’arte, eppure in tutta la storia dell’arte si sono fatte copie e  gli artisti non hanno mai potuto prescindere dai loro predecessori.

Che cos’è l’omaggio: è un’espressione di ammirazione e di stima di un artista per un altro che si esplica nell’atto di ricreare l’immagine allo scopo di conoscerla più profondamente in ogni sua parte. L’esecuzione di un omaggio comporta infatti che il pittore senta e pensi visivamente, confrontandosi con i problemi posti dalla forma e dal colore dell’originale. Colui che copia in realtà  esamina e scopre il segreto del suo predecessore.

Dipingere omaggi è quindi anche un metodo di studio e fonte di soluzioni formali. Cézanne diceva che sarebbe grottesco immaginare che l’artista cresca alla cieca come un fungo, quando ha a disposizione generazioni di maestri dalle cui opere può trarre profitto. Risalire alle fonti, in questo caso ad immagini la cui fama è consolidata,  è il procedimento più naturale che si possa seguire, d’altra parte nessun scienziato, nessuno storico scriverebbe un saggio senza aver prima consultato le pubblicazioni precedenti.

Nel passato Tiziano e Rubens attinsero sfacciatamente dagli altri, più recentemente Ricasso ne è un esempio eclatante (egli iniziò la sua indagine interpretativa tra i 60/70anni, età in cui Cezanne la smise). I d’apres di Mario Pauletto si devono considerare riletture, reinterpretazioni appassionate delle opere originarie, nelle quali il pittore inserisce autoritratti, ribalta le soluzioni coloristiche, rivisita il pezzo con tecniche diverse mettendosi alla prova e riversando nell’omaggio la tecnica o la sensibilità coloristica del momento. Quanto più ci allontaniamo dalle prime esperienze, da considerare veri e propri studi, mi riferisco ad un pastello tratto da Renoir, ora in collezione privata, molto fedele all’originale, tanto più gli omaggi si fanno sempre più profondamente rivisitati. I modelli sono i maestri che Pauletto considera tali per la sua crescita pittorica, Sironi, Munch, Goya, ma anche altri che più semplicemente lo hanno colpito o hanno stimolato una sfida, Picasso, Morlotti, Pollock, Antonello da Messina. Utile la lettura del testo “L’arte nata dall’arte” per cogliere a fondo l’importanza di questa pratica.

Nella terza sala è collocata forse una delle produzioni più originali per l’affinamento della tecnica, la sperimentazione che ne è avvenuta e i risultati di profonda varietà nelle forme, ma soprattutto di espressione  e lirismo: il monotipo.

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Mario Pauletto nell'atto di realizzare un monotipo

Il monotipo è una forma di stampa ibrida, che mescola pittura e calco e che può dar luogo ad uno o due esemplari, dei quali il secondo dalle tinte più tenui del primo. La difficoltà sta sia nella preparazione del supporto che può essere di vari materiali, sia nella composizione e nella previsione del risultato,  una volta che carta e supporto sono passati al torchio. E’ una tecnica che comporta quindi una buona progettualità e soprattutto una conoscenza approfondita degli effetti che i materiali usati, siano essi carta, nailon, filo, spago, terra danno una volta  mescolati ai colori e sottoposti alla pressione del torchio. Si producono molti monotipi ma anche se ne scartano la maggior parte, perché la casualità ha molto margine.

Al piano superiore si riprende con la grafica: l’incisione. E’ un vero e proprio viaggio nell’invenzione, nel senso latino di “scoperta”: dai forti linoleum espressionisti degli anni ’60 alla tecnica tradizionale dell’acquaforte e dell’acquatinta che  si dà una veste nuova e elegante stampandosi su tela misto lino, con vibranti effetti chiaroscurali e traslucidi, oppure si fa vedere in controstampa. L’acquatinta a  quattro  colori simultanei su unica lastra testimonia un procedimento poco in uso che obbliga a pulire la lastra varie volte con accuratezza, quanti i colori che si vogliono stendere, facendo attenzione che non si miscelino tra loro, sporcandosi.

E’ quasi uno scherzo alla tradizione la stampa ad imitazione dell’acquaforte, incisa con sgorbie su una lastra di faesite precedentemente preparata: i tratti appaiono forti, vigorosi e molto in rilievo. Infine le prove su tanti e diversi materiali, come il compensato, la lastra di ferro, ecc.

Dal bianco e nero ritorniamo al colore con un’immersione nell’umanità a volte profondamente angosciata a volte lieve dei volti. Anche in questo caso il lavoro si è protratto per tutto l’arco della carriera del pittore contando centinaia di volti, a tempera, acrilico, olio, china… Sono espressivi, dagli occhi che sembrano laghi, dai colori per lo più innaturali, giocati nei terziari e nei complementari, con tinte nuove e rare. Difficile stabilire dove sta il buono e dove lo scarto. Tutto è espressione, anche la maschera, tema ricorrente nella pittura di Pauletto, emblema di un’umanità che si nasconde a se stessa, anche il pezzetto semistracciato di un piccolo volto, in cui si intravede un solo occhio.

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il trittico (1)

Infine l’ultima sala, dominata dal trittico sulla guerra, la fame e l’inquinamento, che guarda di fronte a sé una serie tratta dalla tematica del Biafra, fonte di ispirazione per il pannello sulla fame. La stanza sembra essere  controllata  dai due mascheroni dell’87, ed è completata da lavori realizzati con un materiale tipicamente di scarto, il cartone ondulato degli scatoloni di imballaggio e da alcune tempere su carta e su faesite. Arredano la sala infine oggetti d’uso quotidiano e dei cubi che l’artista ha ricreato utilizzando le carte di scarto preparate per i suoi mascheroni o per i collage.

I tre pannelli quadrati alti 1.20 metri concepiti  come bozzetti per un lavoro che doveva avere dimensioni di tre metri in altezza e nove in lunghezza sono stati realizzati nel periodo che va dagli anni ’70 all’80, utilizzando tutti i materiali di scarto  di lavori precedenti: ritagli di figure, parti di carte colorate facendo monotipi, ecc, oltre a materiali vari raccolti per il loro significato simbolico.

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il trittico (2)

Soprattutto agli inizi degli anni ’70 la riflessione dell’artista si era fermata a lungo sugli effetti tragici della guerra del Biafra, che dichiaratasi indipendente nel ’67 dalla Nigeria era poi dovuta rientrare nella confederazione nigeriana. All’epoca erano sotto gli occhi di tutti le immagini dei bambini scheletrici per la denutrizione e con la pancia gonfia e delle morti per fame. Guerra e fame riportano Pauletto  tra l’altro alle esperienze personali, degli anni ’40- ’45  quando era ventenne, e producono prima una serie di disegni e di linoleum che rappresentano uomini e bambini come cadaveri viventi, monito e sofferenza vissuta con essi;  poi l’osservazione del proprio mondo e della vita della società occidentale ben diversa da quella dell’allora Terzo mondo, lo induce a lanciare un ironico richiamo  ai suoi contemporanei che inquinano il proprio mondo, che si fanno tradire dalla droga, che amano la civiltà della macchina al punto di lasciarsi sedurre mortalmente. I tre pannelli si occupano quindi della guerra, della fame e dell’inquinamento con una sconcertante e pessimistica attualità: sono passati infatti già trent’anni dalla loro realizzazione.

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il trittico (3)

L’impianto per certi aspetti è razionale, è nato come una successione di pagine di giornale che l’osservatore sfoglia però senza dover tornare indietro, perché tutto rimane inevitabilmente sotto i suoi occhi, non gli è permesso di girare pagina e di dimenticare. Mette insieme, in un mixage di collage e pittura, pezzi di lavori dei primi anni ’70 con prodotti dell’inizio ’80. Il fondo è bianco, come la carta del giornale dove si scrive e su cui chiunque può aggiungere, è bianco come il colore che accompagna sempre i lavori di Pauletto. Le immagini sono inserite in rettangoli, quasi uno sforzo di dominare il problema, di dare ordine a qualcosa di troppo grande, quasi a voler trovare una soluzione incasellando, classificando; ma qui non parliamo solo di problemi, ma della natura umana, dice Pauletto con quel cartello “Lavori in corso”: la guerra ci sarà sempre, ci saranno sempre quelli che pagano per i potenti. L’uomo, nonostante tutto, tende a farsi del male perché  guarda  poco più in là del proprio naso e,  per esempio, fuma senza pensare alle conseguenza del suo gesto.

In realtà le immagini e i loro significati non cedono alla cornice in cui sono chiuse ma ne escono, sbordano e si impongono con la loro fisicità, urlano verità e si fanno simboli. E’ necessario fermarsi qui davanti non solo a guardare oltre l’impatto iniziale già di per sé fortemente comunicativo sia esteticamente che nei contenuti (tutti possono capire il messaggio che è così evidente!), ma poi bisogna cogliere le metafore a volte chiare altre volte sottili, sul filo di ricordi o legate al patrimonio comune di immagini che ci riconosce europei, ancora a filoni storici lontani come le file dei guerrieri di varie epoche, (soldatini?),  testimoni di masse mandate alla guerra da sempre, che ironicamente il pittore mette in una  foto ricordo, collocando appena sopra una fila di teschi dal significato piuttosto crudo ma realistico.

L’osservatore si trova coinvolto dal gioco delle pagine e spinto a cercare i collegamenti, siano quelli pensati dall’autore ma anche quelli che egli stesso può inventare sul filo delle proprie esperienze e conoscenze, per cui il fruitore qui diventa anch’esso artista aggiungendo valore all’opera.

Sono necessarie alcune note di spiegazione di elementi che possono risultare forse più oscuri di altri e qui li affrontiamo con ordine: nel pannello dedicato alla guerra campeggia la testa di un soldato che sembra piuttosto un robot,  una macchina, mentre il crocefisso rappresenta il sacrificio dell’umanità. Sopra migliaia di uomini cercano la fuga, inutile, come impazzite formiche prima di un temporale e sotto campeggia un campo di altrettante numerosissime croci e ancor più giù,  a ribadire il concetto di sofferenza le salme stese dei morti. Il passare del tempo e il ripetersi vano delle guerre è dato dalle serie di soldati che nelle varie epoche sono scesi in battaglia,  non ultima l’effige del fungo atomico di Hiroshima. Poi le lettere grandi che collocate strategicamente, fungono sia da aspetto puramente grafico ma sono anche la firma dell’autore, in questo pannello l’”ET…” sta anche per “eccetera” : le guerre continueranno, i problemi dell’uomo sono anche altri.

Nel pannello raffigurante la fame di nuovo un simbolo cristiano, in chiave diversa dal precedente: cristianesimo come missione, come aiuto umanitario vero. In un angolo in alto a destra un cielo con un sole spento, morto perché per chi è denutrito e senza speranza di riscatto umano e sociale non c’è luce né speranza, speranza rappresentata anche dal cielo vuoto poco più in là e dalla lettera “L…” che sottintende la parola “luce”. Ma ciò che colpisce di più è quell’ umanoide che con il suo braccio deforme indica alla sua sinistra un macabro scambio 4 x 2 = ti do quattro neri per due bianchi. Sotto ancora, quasi un rimando, come tanti altri nell’opera, alla “Poesia visiva” due collage:una pagina con una scrittura orientale e uno spartito musicale, il primo lingua sconosciuta ai più, simbolo dell’incomunicabilità, l’altro linguaggio universale che non basta però ad unire i popoli, e poi, ironicissimo, il cartello di pericolo”lavori in corso” con riferimento all’O.N.U. per dire che tanto si parla ma in sostanza non si risolve e quindi, ritornando allo spartito, la musica è sempre la stessa.

Infine l’inquinamento ovvero la capacità dell’uomo di autodistruggersi anche con le proprie invenzioni, di per sé buone, quasi sempre. Campeggiano gli elementi tipici del tema, oggi per noi non nuovi, ma teniamo presente che negli anni settanta si iniziava appena a parlare di ecologia in maniera seria e consapevole, perché in precedenza si pensava che la natura fosse in grado di smaltire tutte le scorie che l’attività umana produceva.

A dir il vero in questo pannello Pauletto si ferma soprattutto sui costumi più strettamente sociali e venefici per l’individuo. Il fumo è un elemento dominante sia esso delle fabbriche, delle automobili che con sinistra attualità sono mostrate in un groviglio mortale, quasi una previsione amaramente realistica dell’oggi e dell’incapacità umana di sfruttare al meglio il progresso. Il fumo è anche quello delle deviazioni come il tabacco e la droga. Angosciante e inetto l’uomo dietro le sbarre di una rete invalicabile con la sigaretta accesa al quale si dice “fuma!” e ancora un cartello stradale di monito, così come in un altro pannello: “pericoloso, rallentare!”. Ma abbiamo rallentato dagli anni settanta ad oggi?

Finiamo il discorso, che non è sicuramente esaustivo, con qualche nota tecnica: negli anni ‘70 e ‘80 varie correnti si affacciano nella vita artistica italiana, pensiamo alla poesia visiva,  alla pop art, alla transavanguardia, con il suo recupero libero del passato e la rivalutazione della singola opera d’arte: anche in questo caso M.P. c’è, è perfettamente presente al suo tempo, non arriva più tardi, arriva di suo. Per quanto riguarda la composizione il gioco è calibrato, a colori scabri si accostano tinte pacate, alla geometria si sovrappone il superamento dei limiti, il ritmo è scandito dal susseguirsi dei quadri nel quadro e della modularità delle immaginette ripetute, quasi “santini” laici.

Non mi soffermo sui mascheroni ben inseriti nell’esperienza della transavanguardia perché parlano da soli. Un accenno alle tempere per sottolineare come la scelta dell’incollaggio su faesite di alcune sia andata a scapito delle molte realizzate ma lasciate su carta, quindi in qualche modo scartate, tempere astratte belle, molto colorate e gioiose, e ai cartoncini, così li chiamo, scherzi di cartone, piccole composizioni di collage anch’esse giocose e particolarmente suggestive, dove lo scarto è il materiale protagonista e produce un effetto piacevole che mitiga, anche se non ci fa dimenticare il monito che ci siamo lasciati dietro poco più in là.

Tiziana Pauletto

Giulio Gasparotti: presentazione della mostra “Esperienze” a Villa Napoleon (Preganziol, TV), 12 Aprile 2008

Il critico Giulio Gasparotti
Il critico Giulio Gasparotti

Non è semplice formulare un giudizio sull’identità artistica e culturale di un pittore. Rendersi conto di ciò che lo accompagna nella ricerca del colore e dell’adattamento dell’idea al soggetto da realizzare.

Gran parte della pittura contemporanea finisce, anche se può sembrare strano, nelle biblioteche o negli archivi, e non nelle gallerie. Perché nasce a parole. E’ spiegata a parole. Rimane parola nei giornali e nelle riviste. Rimane parola nei market televisivi. Torna a parole nel ricordo. Anche se dipinta è pittura scritta.

Il motivo è che, spesso, il pittore si sceglie il padre che più gli conviene. E noi confondiamo l’effetto con il valore artistico.

La sorpresa di questa antologica, che l’artista ha chiamato “esperienze”, consiste nella rinascita del soggetto, nella sparizione degli incantamenti di senso, nella mancanza di effetti speciali, per una propria origine controllata.

Dalla realtà dei paesaggi, dei muri alla composita armonia di piani e di colori pieni dei ritratti e delle altre composizioni astratte, nel collage, si nota una partitura stretta di accordi e di risonanze. La scelta di accenti che purificano la materia pittorica nel modulare pieno, dicevo, e libero del colore che si concede in tutta la superficie del supporto, in uno slancio durevole e concorde.

Su legno, su faesite, su carta o cartone, il suo dipingere non si disperde, né si restringe da una dimensione all’altra del quadro. Diviene sonoro, intenso. Costruisce il proprio spazio. Diviene visione, nel cui equilibrio tutto si fa linguaggio.

Guardate i quadri da qualsiasi angolazione. Vi aggiudicate il colore, la forza della carica cromatica, che rifiuta l’unicum per il molteplice e dà alla luce una funzione costruttiva e dona luce alla profondità spaziale. L’indagine è come assorbita da ritmi che la scandiscono con forti segnali musicali, in quanto, mentre si realizza la struttura d’immagine, se ne allontana, sfuggendo ad una limitata visione dimensionale. Ma più importanti sono gli equilibri di magnetismo interno,  giocati su  particolari rispondenze di cromie (nei quadri abbinati) per cui alcuni colori tendono ad avvicinarsi e altri ad allontanarsi, creando quel molteplice già considerato, acquisizione linguistica di assoluta originalità.

Un dettaglio dell'allestimento
Un dettaglio dell'allestimento

Voglio dire che è sempre il colore, anche nei ritratti, che alla fine sono dei paesaggi, che nelle accentuazioni e nel leggero ondulato, tende a ricomporre un’architettura ideale scorrevole su un’asse che ne determina un piano d’orizzonte.

L’impianto è aperto e la ricchezza del tessuto pittorico è dovuta a una sapiente elaborazione della messa a fuoco concentrata sul fatto visivo o su quello percettivo. Il veder meglio nell’indefinito è una ricerca di espressione capace di stabilire i termini poetici del sentire, del dire in pittura, specie nella combinazione dei colori, che qui svela il mistero del colore, attraverso la possibilità di sembrare univoci e molteplici, rafforzati e variati, accostati come itinerario e matrice dell’immagine.

Dalla realtà dei paesaggi alle ultime composizioni, si può osservare come l’interpretazione formalistica si trasformi in interpretazione contenutistica perché le forme sono pur riconoscibili, costruite in una dimensione stilistica, la più appropriata tra quelle possibili.

Ogni opera si presenta con un suo modo di inizio, di elaborazione e di conclusione. E nell’astrazione la realtà non è dimenticata. Dipingendo ha sempre in mente i quadri precedenti, che trasfigura attraverso le pieghe e il sentimento del colore.

Le macchie che risaltano negli acquarelli si dissolvono nello spazio, mettendo in moto tutta l’esperienza, conquistata in una dimensione divenuta spessore dell’esperienza.

Esperienza, in pittura,  vuol dire ricerca, indagine, studio sistematico per approfondire, chiarire e verificare i modi espressivi e sottoporli al giudizio del pubblico.

La sua ricerca, in certi momenti si avvicina a un ismo. In altri, cerca una sintesi logica verso una dimensione estetica. Intermezzi che fanno parte dell’esperienza di chi sa portare avanti la stessa ricerca.

Il dipinto è un figlio al quale insegni a camminare e a parlare, finché parla e cammina da solo.

L’esperienza non può e non deve guardare un unico orizzonte, essendo il quadro un prodotto visibile e concreto del pensiero e dell’azione dell’autore. Ma è anche filosofia, segue la contemporaneità e si avvale della tradizione. E’ matrice ed erede insieme. E’ razionalità e sintesi. Non esiste alcun processo meccanicistico sul cosa e sul come comunicare emozioni e contenuti. E’ solo visione del mondo dal punto di vista di chi dipinge. E tutta l’arte è a modo suo astratta, perché riduce ogni atto della vita, della realtà, a presenza. Ho così cercato di entrare nel mondo di Pauletto, che rappresenta le sue opere in pronta cassa per la resa del resto avvenire. Concludo con un pensiero del filosofo danese Kierkegaard: – Ciò che si vede dipende da come si guarda. Poiché l’osservare non è solo un ricevere, uno svelare, è al tempo stesso un atto creativo.-

Ringrazio Tiziana Pauletto di avercelo fatto comprendere.

Giulio Gasparotti

Simone Santilli: presentazione mostra a Fontanafredda, 7 Giugno 2008, Palazzo Ca’ Anselmi

Un momento della presentazione di Simone Santilli
Un momento della presentazione di Simone Santilli

Ciò che l’artista espone oggi è una selezione di opere che emergono subito per la loro diversità: volti, paesaggi e astratti, soggetti alquanto lontani gli uni dagli altri. Eppure tale dato è soltanto apparente. A dimostrarlo, infatti, vuol essere l’allestimento della mostra: una sequenza che vede i lavori alternarsi senza distinzioni di genere. Non si è voluto dedicare una parete al paesaggio, una ai volti, una agli astratti. Al contrario, le opere sono accostate solo in base al messaggio che veicolano, il quale scaturisce dalla relazione delle une con le altre, all’emozione che suscitano: un sentire che si riversa di opera in opera, come un flusso inestinguibile. La mostra non prevede quindi una direzione: qualsiasi punto è buono per lasciarsi trasportare e scorrere la parete come la pagina di un romanzo, la corsia di una piscina, da attraversare in apnea per riprendere fiato solamente una volta in fondo, e subito tuffarsi nella successiva; e poi ripercorrere il tutto, magari al contrario, per assaporarne pienamente l’aroma. Tuttavia, un insieme d’opere così distanti, a prima vista, tra loro, può sembrare dispersivo, frammentario, discontinuo.

Viene allora spontaneo chiedersi: l’artista è ancora immaturo? Forse non sa ancora applicarsi con efficacia e costanza ad una data tipologia? E’ ancora alla ricerca di un “marchio di fabbrica”? Probabilmente la questione va affrontata dal lato opposto: non esiste un soggetto che sia in grado di contenerne la sensibilità, vena creativa che trabocca, esonda invadendo più generi senza porsi alcuna preoccupazione stilistica. Tutti vengono approcciati allo stesso modo. Infatti, il primo elemento che emerge come tratto comune tra questi lavori, come in tutta la produzione dell’artista, è la materia, il processo, l’ossatura dei quadri: la tecnica. Si tratta di un procedimento costruttivo per cui, dall’intelligente compenetrazione di carta e pittura, nasce un prodotto finito che non è più definibile come collage o pittura in senso lato, ma può solamente chiamarsi “mosaico”. Ogni opera è composta di tasselli cartacei, a loro volta ricavati da grandi fogli studiati per quanto concerne gli accostamenti cromatici, la stesura dei pigmenti e l’attenzione alle combinazioni di velature successive: si tratta praticamente di opere a sé, di “pre-opere”. Strappati secondo le esigenze compositive e ricollocati, i brandelli cartacei di uno stesso foglio vanno a costituire figure anche lontanissime tra loro: lembi di carne, volti emaciati, oppure finestre, pareti, fogliame, sentieri, colline, orizzonti, cieli. Ma, perché ciò avvenga, essi devono entrare in relazione. Qui entra in gioco la pittura: essa è il collante, lo strumento con cui rifinire la composizione, sottolinearne le parti significative, plasmare la materia confusa conferendole forma. E’ un atto d’ordine.

Il pennello di Tiziana Pauletto non dipinge, ma cuce: è l’ago di un sarto intento a creare un pregiato arazzo. Volti e vedute brulicano, vibrano per la fitta presenza di frammenti, pressati gli uni contro gli altri, che rendono il quadro letteralmente materico, conferendogli volume, increspandone la superficie. Su essa la luce vi crea affascinanti giochi di chiaroscuri, drammatizza i contrasti, aumenta l’impatto e la profondità di ciascun lavoro. La luce dell’ambiente, quindi è parte integrante dell’opera, la scolpisce, completandola. Quanto affermato si può riscontrare anche nelle composizioni astratte, dove, tuttavia, i pezzi di carta sembrano acquisire quasi autonomia, divengono significanti assoluti e ognuno è una metafora. La distanza tra essi, infatti,aumenta, è palpabile: questi brandelli “respirano”, si adagiano sul quadro, non necessitando di una relazione per acquisire significato. A mio parere, quindi, più che di astratto si dovrebbe parlare del prodotto di un occhio in movimento, assimilabile all’obiettivo di una macchina fotografica: avvicinandosi alle cose, le indaga quasi microscopicamente. Il richiamo alle macrofotografie, ai close-up, è notevole: il dettaglio, ripreso in modo ravvicinato, non è più oggetto, ma diventa grafica e parla d’altro, perdendo la propria identità.

Ci troviamo, quindi, di fronte ad un’erede degli informali materici; erede ma non epigone: assimilata la lezione, l’artista va oltre, conferendo nuovamente forma all’informe, quasi vi fosse una necessità di dar ordine al caos in cui stagna il reale. Ed è in questo atteggiamento che troviamo il secondo elemento di connessione tra i lavori esposti, i quali, sempre più, acquistano coerenza solo se letti all’interno di un corpus, di un insieme, perché declinazioni della stessa mente. Essi nascono dall’esigenza conoscere. Si tratta di un processo tortuoso, eppure condotto lucidamente, analiticamente, da un pensiero che necessita di scomporre, smontare quello che vede (e la vista si identifica nella vita), facendolo proprio, per comprenderlo. Un atto chirurgico, con sapore d’autopsia, ma allo stesso tempo teneramente infantile: non richiama forse l’istintivo gesto di molti bambini quando smontano un oggetto “misterioso” per cercare di ipotizzarne il funzionamento? Ma l’artista non si limita a spargere dei pezzi sul pavimento: restituisce alla realtà ciò che le ha sottratto, avendolo compreso nella sua essenza, ricostruendolo, non secondo forme ideali o utopiche, ma solo in base al proprio sentire. Quello che ci ritorna è l’essenza della realtà, in quanto sua interpretazione autentica (e quindi quanto mai vera), e allo stesso tempo un messaggio con un forte intento paideutico. Ogni quadro è un invito a indagare, ad andare oltre, sotto la superficie delle cose, risvegliare una mente troppo spesso assopita da un’esistenza snaturata, dalla vita d’oggi.

Si spiegano allora i colori caldi (gialli, arancioni: espressioni della pura vitalità per Kandinskij) che paradossalmente caratterizzano i volti più martoriati, duri, sezionati e ricomposti in modo volutamente incerto, vicini più a novelli Frankenstein, che non a esseri umani: zombie, riassemblati con un piglio di cinismo. E dall’altro lato, i blu, i versi, freddi, a volte acidi, a fondersi in visioni quasi eteree di visi dominati da pace e serenità talmente profonde da risultare inquietanti. E tutto entra in simbiosi con i quadri vicini, tramite una fitta rete di richiami e scambi, intrecci vari e mai definitivi: non si finisce mai di scoprire nuove relazioni. Il corpus esposto è quindi un insieme in divenire, pulsante, vivo, capace di comunicare con lo spettatore, con forza, in un intimo e serrato dialogo. Ci si accorge, ad un tratto, di come sia possibile passare da un quadro all’altro senza avvertire pause o rotture: si ha la sensazione che l’opera che si ha appena finito d’osservare si sia riversata nella successiva.

A questo proposito, appunto, ho paragonato la parete ad una pagina, le cui parole paiono tutte diverse tra loro, pur non essendo altro che la combinazione di un unico alfabeto. In un certo senso in questa sala è esposto un solo quadro: ogni singolo lavoro, in realtà, è un attimo della vita dell’artista che acquisisce una determinata forma, combinando in modi sempre differenti le stesse componenti. Ogni lavoro è un’emozione, e come tale, sempre diversa dalle altre, ma sempre emozione.

Concludo con una questione, che mi ha suscitato la visione dei lavori prima e durante l’allestimento della mostra. Ognuno di questi quadri è una declinazione della mente dell’artista, che trasferisce un attimo di sé sulla superficie dell’opera.

Di conseguenza, il corpus qui esposto, non è solo un colossale autoritratto?

Simone Santilli