TRAME – Galleria Comunale G.T.Kennedy di Prata di Pordenone luglio 2010

Ecco alcune immagini. L’abbinamento dei miei muri con le opere di Francesca Sist che fa un pachtwork fuori schema è riuscita. Per quanto mi riguarda ho esposto una serie di muri e il primo Omaggio a Michelangelo, che troverà ulteriore sviluppo nella mostra di Limana dell’ottobre 2011.

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La mostra è stata presentata da me e rallegrata dalle musiche del quintetto  Il Fondaco Sonoro.

Di seguito l’apparato critico.

TRAME

Trame e orditi svelati da fili in libertà  o racconti sussurrati da muri abbandonati

Questa mostra nasce grazie ad un reciproco apprezzamento tra le due artiste che operano per certi versi in modo simile, anche se con materiali diversi, i quali presuppongono ovviamente tecniche di lavorazione proprie.

FRANCESCA SIST

Sonia Delaunay, importante creatrice di tessuti, i cui disegni erano talmente apprezzati a Parigi da suscitare la gelosia del marito, il più famoso Robert, pittore cubista,  ebbe a  dire : “C’è un’ingiustizia flagrante fra noi due, io sono stata classificata nelle arti decorative e non hanno voluto ammettere che  fossi una pittrice in ogni senso.”

Francesca Sist si occupa di tessuto, meglio di pachtwork, ma non per questo si deve considerare il suo lavoro qualcosa di strettamente “artigianale” o di prettamente femminile. Indubbiamente il patchwork si colloca in un ambito creativo di tipo artigianale, in quanto necessita di abilità pratiche specifiche, ma in quale arte ci si può cimentare se non si è abili nella sua tecnica? Eppure questa pratica, soprattutto se esercitata alla maniera di Francesca, cioè con modalità non tradizionali e non hobbistiche, può produrre arte.
 Facciamo un passo indietro occupandoci brevemente della storia  del  patchwork ovvero di quel lavoro con toppe di tessuto, o meglio, dell’assemblaggio di toppe di tela secondo un disegno prefissato.
La parola solitamente evoca nella gran parte delle persone  le coperte a pezze di derivazione americana o al massimo dei  pannelli decorativi da muro. Se è vero che il patchwork americano  oggi fa scuola in tutto il mondo, va detto anche che la necessità di trasformare materiali tessili di recupero in manufatti utili alla vita quotidiana è diffusa in tutto il mondo e ha origini antiche: dall’Africa occidentale dove si tessono nastri di tessuto assemblati in lunghe strisce  a creare coperte, turbanti e abiti, agli indiani dell’America centrale, fino ai kimono giapponesi.
 Il trapunto ha origini intorno al 5000 A.C. in Cina e in Egitto. Poi tocca al medioevo europeo che lo conosce grazie ai crociati che lo portano con sé dal medioriente.
 La trapunta da letto esiste già presso i Romani che la chiamano culcita e che  nel medioevo diventa una specie di insieme di copriletto e materasso che successivamente prende il nome di quilt. Un altro esempio di patchwork ante litteram è la maschera di Arlecchino. Nel 1600 i ricchi inglesi utilizzano i chintz indiani per le loro trapunte o per gli arazzi.
Il secolo d’oro è però il 1800 sia in Europa che in America: in Inghilterra prevale la trapunta composta da moltissime piccole toppe, a volte migliaia e addirittura si lavora insieme come in una gara allo stesso lavoro, per cui il patchwork assume anche un valore sociale.
In America, dove la tecnica si è trasferita nel 1700, essa si rinnova e soprattutto, quando con l’indipendenza le manifatture locali producono tessuti autonomamente, i lavori si fanno sempre più belli e creativi tanto da innovare l’intera produzione mondiale. In Inghilterra rimane la produzione a medaglione, mentre nel nuovo mondo si diffonde la composizione a riquadri.
 Nel ventesimo secolo gli americani fanno scuola e ormai da qualche decennio il patchwork si è slegato dall’immediatezza dell’uso pratico, inoltre molti musei espongono i lavori tra le altre opere di arte visiva.
Ed ora veniamo alle opere di Francesca Sist: l’artista conosce bene la tecnica al punto di decidere, dopo aver prodotto le tipiche composizioni geometrico/figurative, di andare oltre mettendo allo scoperto il processo di produzione, come dire che lascia vedere ciò che gli altri nascondono: il retro dei suoi lavori ha altrettanta importanza del fronte, non solo, i fili che uniscono le varie toppe, che solitamente vengono ordinatamente tagliati, accorciati, fatti sparire secondo un concetto di ordinata pulizia,  nelle sue “tele” sono invece parte in gioco essenziale, compongono l’immagine assieme ai ritagli di stoffa, la costruiscono e la caratterizzano. Da qui il titolo della mostra “Trame”…
Ordire la trama di un racconto significa decidere l’idea che lo conduce, crearne lo svolgimento principale, stabilire un inizio ed una fine, intrecciarne le azioni… Ecco: quest’operazione si manifesta nei pannelli dell’artista e viene svelata; non è coperta dai due ulteriori  strati (imbottitura e fodera)  che fanno di un lavoro di patchwork un’opera finita.
Per quanto riguarda le composizioni, anche in quest’ambito ci sono novità rispetto alla produzione tradizionale contemporanea spesso legata o a motivi figurativi o geometrici:  la pittrice, perché così credo si debba ormai definire Francesca, costruisce indifferentemente paesaggi o affronta il più difficile territorio della composizione astratta. Non soddisfatta dei tessuti che recupera, per gli ultimi lavori ha preparato e tinto lei stessa le stoffe, cotoni italiani sempre e solamente, ottenendo così scampoli di tessuto dalle varie gradazioni che combina in sfumature o per contrasto timbrico e che lega con quei fili che, sciolti e liberi da ogni comando, creano ulteriore movimento in composizioni già di per sé dinamiche.
E’ difficile non utilizzare aggettivi come “fine”, elegante”, un po’ troppo vicini al mondo della sartoria però è vero che, soprattutto le opere dove predominano i neri, sono intriganti,  affascinano particolarmente e perdono, pur essendolo, la sembianza del patchwork per assumere quella della pittura, di una buona pittura.

TIZIANA PAULETTO

Per quanto riguarda la mia pittura fornisco alcune note sotto forma di appunti e poi lascio la voce ad una giovane critica, purtroppo precocemente scomparsa, Caterina Fasolo.
I miei quadri, per ora, nascono secondo un procedimento a più strati: inizialmente preparo un fondo in acrilico, spesso figurativo, poi lo “rompo” con l’applicazione di carte veline da me acquerellate precedentemente, infine ritorno sulla superficie col pennello. Mi piace la “casualità guidata” con cui si comporta  l’acquerello sulla velina e che è parte determinante della mia produzione.
Ritengo i miei lavori una metafora dell’esistenza, credo di quella di tutti, senz’altro della mia: noi siamo come i muri delle case, costruiti più  o meno solidamente, e superiamo ostacoli, riceviamo aggressioni, ma anche godiamo di obiettivi raggiunti e di gioie, come un muro che più volte è ridipinto e rinnovato ma anche subisce le intemperie e risente del passare del tempo. Ecco allora che si formano crepe, che vengono riaggiustate e nelle quali si possono leggere le vicende di quel muro. Quest’ultimo inoltre “parla” di coloro i quali lo hanno frequentato… ma racconta anche di sé: noi siamo un sovrapporsi di esperienze che nel tempo si sedimentano, e a volte riaffiorano inconsapevolmente e sta a noi rielaborarle e agli altri “leggerle” e decidere se accettarle o meno. Lo scavo non finisce mai così come il cambiamento, la crescita è continua…
Sui muri infine spesso si posano ombre: di alberi, di uccelli, di passanti, di veicoli, di case… i nostri pensieri, quelle impressioni o sensazioni fuggevoli che pur hanno grande parte nella nostra quotidiana esistenza e che spesso vorremmo trattenere per goderle, ma l’ineffabile, (uso una parola forte) la felicità è incatturabile.

Prata, 4 luglio 2010                                                                                                                                                                              Tiziana Pauletto

Alberto Pasqual e Walter Zaramella a Gruaro il 3 settembre 2011

Ecco di seguito la mia presentazione alla mostra dei due validi artisti e qualche foto delle opere. le foto sono di Mario Santilli

ALBERTO PASQUAL GRUARO 2011

Spesso oggi lo scultore che sceglie il metallo, in particolare ferro o acciaio,  compone le sue opere per assemblaggio, utilizzando parti d’oggetti o facendo produrre manufatti appositamente studiati: è l’arte del NON FARE, il NOT MAKING; in poche parole lo scultore è regista e progettista di un’opera che fa realizzare a chi è più bravo di lui nella tecnica della lavorazione del metallo. Non è così Alberto Pasqual che pur ha sperimentato la condizione di esecutore e compartecipe di un progetto, quello del monumento a Marco Pantani che si trova sulla salita del Montirolo in Valtellina, progettato da Michele Biz e Alessandro Broggio.

L’artista sacilese disegna e realizza le sue opere, attualmente e principalmente in ferro (ma lavora anche bronzo e terra), avvalendosi delle sue ottime competenze tecnico-esecutive legate alla professione che svolge: il fabbro.

Se si guarda la produzione artistica dal medioevo ad oggi, sono rari gli scultori che hanno scelto il ferro come materiale per esprimersi, tanto che esso, classificato nelle arti minori come “ferro battuto”,  dal XII secolo è stato utilizzato soprattutto per inferriate e cancelli fino alle decorazioni liberty,  e sono pochissimi i contemporanei cimentatisi nella scultura in ferro a tutto tondo. La ragione potrebbe essere legata  al suo peso che ne limita la manovrabilità, alla tendenza ad arrugginirsi, o forse, più probabilmente, alle difficoltà di lavorazione.

Uno dei valori aggiunti delle sculture di Pasqual sta nel mettersi alla prova con una materia non canonica e nel farla uscire con successo dagli usi consueti, sfruttando il fuoco per plasmare, modellare, tagliare, squarciare  il blocco come fosse materia docile, quasi una plastilina su cui un dito o un ferro deciso si imprime e scivola.

I pezzi di Pasqual si impongono per una potenza aspra, d’impatto tattile, e fanno scaturire sensazioni e ricordi di fucine, di sudore e visioni di fuoco.

Ed è proprio col fuoco che l’artista lavora  incidendo profondamente il blocco, che si articola in fessure profonde le quali aprono variamente, ma per lo più in linea retta, i volumi. Non si può certamente definire di superficie questa scultura! Lo scultore sacilese non fa parte di quella schiera di artisti che, alla ricerca della leggerezza, riducono il metallo in sottili lamine o fogli svolazzanti: egli lavora sullo slancio in verticale, sul longilineo, mi riferisco in particolare ai guerrieri, rispettando la fierezza  del ferro e agisce sulla sua massa, ma non toglie sostanza. Le sue figure, guerrieri o parallepipedi, sezioni di sfera, ecc. interagiscono energicamente con lo spazio circostante, fendono l’aria, la sferzano anche quando predomina lo sviluppo in altezza: essi si mostrano allo spettatore come monoliti forati e consumati dall’erosione di acqua e vento, come certi calcari carsici, metafore di una lotta strenua per la vita, riparati a malapena dal loro scudo e sprovvisti di elmo, privi  (o privati?) spesso degli arti, essenziali nel loro significato di resistenza.

Un filo robusto lega due produzioni apparentemente distanti, quella figurativa degli anni passati e quella geometrizzante “astratta” attuale, che è a mio parere, senza nulla togliere alla precedente, valida e comunicativa, molto più personale e intrigante: l’idea della guerra, e per contrasto  della vita, intesa come battaglia perla sopravvivenza. Ipezzi e i guerrieri sembrano la risultanza di uno scontro titanico, superstiti di una civiltà futura sconvolta i primi, quasi personaggi mitologici i secondi.

E’ un impatto che provoca lacerazioni, è la visione di ferite che lasciano guardare oltre i corpi squassati,  a volte il taglio si fa foro, oppure sono squarci che si rimarginano lasciando scanalature e abrasioni che articolano superfici lucide. Ne vengono effetti di bagliori e oscurità, di chiaroscuro accentuato che amplificano la drammaticità.

I tagli e le ferite quindi sono la sostanza, la parte ineludibile,  integrante e complementare, delle geometrie pulite di parallelepipedi e di cerchi, dallo scudo del guerriero alla sezione di sfera, come a dire che la nostra esistenza è insieme tranquillità e inquietudine, sistema e ribellione, sofferenza e serenità, unione e spaccatura.

Infine il colore: siamo abituati all’effetto delle terre e del bronzo, ma il nero del ferro, e la ruggine che assume varie sfumature, sono suggestivi; in particolare il nero, o l’effetto ematite nelle sculture lucidate, è potente, conferisce  ulteriore vigore  che produce uno scuotimento interiore, ben oltre i significati metaforico-simbolici, pur importanti, che l’artista dà ai suoi lavori.

Gruaro 3 settembre 2011                                                                   Tiziana Pauletto

WALTER ZARAMELLA GRUARO 3 SETTEMBRE 2011

Grigi colorati, bruni e ocre incontrano blu e azzurri cielo, fasce dalle campiture marezzate dischiudono nel loro cuore una figurazione apparentemente accennata: agglomerati di case, portoni di vecchie officine ormai dismesse, panni stesi sopra strette vie di borghi popolari, alberi maestosi ben ramificati, trattati a pennello e spatola. La zona centrale di ogni dipinto, nelle sue forme inizialmente non percepite come tali, ma come sensazioni di colore, affiora gradualmente alla consapevolezza dello sguardo, grazie alle tinte progressivamente più chiare dello sfondo. I bianchi, a volte lievemente colorati, altre volte candidi,  ben dosati e spesso trasparenti,  illuminanola scena. Lineeaccennate  da un pennello veloce e ripartizioni geometriche non invadenti disciplinano una materia informale. La generale predilezione per un andamento orizzontale dispone, assieme a tinte mai eccessivamente urlate, alla tranquillità e alla riflessione.

Un sussulto si  accenna quando l’occhio si approssima al centro più dinamico e costruito con  zone di colore sfrangiate e colpi di pennello o spatola o rullo,  che muovono la superficie fino a placarsi nelle zone marginali del quadro.

L’oggetto, che è argomento di ogni opera, si presenta quindi come un fantasma, una apparizione sfuggente all’occhio, ma forte e intensa che trattiene la visione e costringe l’osservazione ad una penetrazione progressiva, che suscita e porta in superficie emozioni o immagini a volte sepolte nel profondo.

Esse  emergono dal flusso ininterrotto dei ricordi, spesso vaghi e inafferrabili: è un portone di officina dove si riparavano le biciclette che ci riporta al lavoro d’artigiano che vi si svolgeva e al rapporto personale diretto tra  proprietario del mezzo e  meccanico. E quasi sentiamo i rumori, respiriamo l’odore di copertone, d’olio minerale, ci immaginiamo le parole e i discorsi sull’ultima partita della squadra locale, o sul maltempo ecc. che immancabilmente coinvolgevano i due, oppure sono lenzuola stese che ci recano voci di donne, e via così, fino ad alberi maestosi sotto i quali molti di noi hanno riposato, rievocanti una natura goduta e godibile… Insomma la nostra immaginazione viene catturata dai luoghi o dagli oggetti ricreati dal pennello di Zaramella e viaggia aiutata proprio da quelle figure accennate che non la obbligano in forme nette, guidata nelle sensazioni dalle pennellate e dalle spatolate che cancellano ciò che prima c’era. Il nostro è un viaggio libero, ciascuno con i propri personali ricordi e sensazioni, ciascuno nel suo microcosmo interiore, eppure comune a tutti nelle esperienze.

E’ un mondo lontano, sì, lontano nel tempo reale, ma vivissimo nella nostra mente, lirico nel suo presentarsi e modesto, quotidiano nella sua sostanza e perciò ci raggiunge.

Così come è carico di emozioni per l’artista, che ripercorre la sua infanzia, altrettanto importante è per noi in quanto ci riporta a un passato di rapporti umani semplici, veri e cordiali.

Non favole fanciullesche quelle di Zaramella, nemmeno dolciastre e inautentiche commemorazioni: lo dimostra il fatto che nella recente produzione vi siano riprese dall’alto di città moderne e navi all’attracco, testimoni dell’interesse per il contemporaneo e del sentirsi cittadino del mondo attuale.  Potremmo definire queste opere  “paesaggi della memoria e dell’inconscio”: essi scaturiscono credo dalla necessità condivisibile di fissare un passato o un ambiente, quando tratta della natura, sentito più autentico di quello in cui molti di noi vivono, ricreato nella certezza che pur essendo inafferrabile non può essere perduto.

Una situazione simile ma diversa, a mio parere, nei contenuti concettuali, si ricrea in alcuni lavori recentissimi in cui l’impressione visiva è che tutto si muova molto velocemente e fugga da noi come se la dimensione temporale fosse accelerata e ci trovassimo a carpire di quel che passa solo alcune vestigia, in un tentativo improbabile di fermo-immagine. Questi paesaggi ci calano nell’attualità dai ritmi accelerati, che non consente di vivere profondamente ma costringe alla superficie. E’ un percorso appena iniziato, preludio di un ulteriore passo verso la pittura astratta e in direzione di nuove dimensioni di pensiero? Attendiamo con curiosità gli sviluppi.

Gruaro 3 settembre 2011

Simone Santilli: presentazione mostra a Fontanafredda, 7 Giugno 2008, Palazzo Ca’ Anselmi

Un momento della presentazione di Simone Santilli
Un momento della presentazione di Simone Santilli

Ciò che l’artista espone oggi è una selezione di opere che emergono subito per la loro diversità: volti, paesaggi e astratti, soggetti alquanto lontani gli uni dagli altri. Eppure tale dato è soltanto apparente. A dimostrarlo, infatti, vuol essere l’allestimento della mostra: una sequenza che vede i lavori alternarsi senza distinzioni di genere. Non si è voluto dedicare una parete al paesaggio, una ai volti, una agli astratti. Al contrario, le opere sono accostate solo in base al messaggio che veicolano, il quale scaturisce dalla relazione delle une con le altre, all’emozione che suscitano: un sentire che si riversa di opera in opera, come un flusso inestinguibile. La mostra non prevede quindi una direzione: qualsiasi punto è buono per lasciarsi trasportare e scorrere la parete come la pagina di un romanzo, la corsia di una piscina, da attraversare in apnea per riprendere fiato solamente una volta in fondo, e subito tuffarsi nella successiva; e poi ripercorrere il tutto, magari al contrario, per assaporarne pienamente l’aroma. Tuttavia, un insieme d’opere così distanti, a prima vista, tra loro, può sembrare dispersivo, frammentario, discontinuo.

Viene allora spontaneo chiedersi: l’artista è ancora immaturo? Forse non sa ancora applicarsi con efficacia e costanza ad una data tipologia? E’ ancora alla ricerca di un “marchio di fabbrica”? Probabilmente la questione va affrontata dal lato opposto: non esiste un soggetto che sia in grado di contenerne la sensibilità, vena creativa che trabocca, esonda invadendo più generi senza porsi alcuna preoccupazione stilistica. Tutti vengono approcciati allo stesso modo. Infatti, il primo elemento che emerge come tratto comune tra questi lavori, come in tutta la produzione dell’artista, è la materia, il processo, l’ossatura dei quadri: la tecnica. Si tratta di un procedimento costruttivo per cui, dall’intelligente compenetrazione di carta e pittura, nasce un prodotto finito che non è più definibile come collage o pittura in senso lato, ma può solamente chiamarsi “mosaico”. Ogni opera è composta di tasselli cartacei, a loro volta ricavati da grandi fogli studiati per quanto concerne gli accostamenti cromatici, la stesura dei pigmenti e l’attenzione alle combinazioni di velature successive: si tratta praticamente di opere a sé, di “pre-opere”. Strappati secondo le esigenze compositive e ricollocati, i brandelli cartacei di uno stesso foglio vanno a costituire figure anche lontanissime tra loro: lembi di carne, volti emaciati, oppure finestre, pareti, fogliame, sentieri, colline, orizzonti, cieli. Ma, perché ciò avvenga, essi devono entrare in relazione. Qui entra in gioco la pittura: essa è il collante, lo strumento con cui rifinire la composizione, sottolinearne le parti significative, plasmare la materia confusa conferendole forma. E’ un atto d’ordine.

Il pennello di Tiziana Pauletto non dipinge, ma cuce: è l’ago di un sarto intento a creare un pregiato arazzo. Volti e vedute brulicano, vibrano per la fitta presenza di frammenti, pressati gli uni contro gli altri, che rendono il quadro letteralmente materico, conferendogli volume, increspandone la superficie. Su essa la luce vi crea affascinanti giochi di chiaroscuri, drammatizza i contrasti, aumenta l’impatto e la profondità di ciascun lavoro. La luce dell’ambiente, quindi è parte integrante dell’opera, la scolpisce, completandola. Quanto affermato si può riscontrare anche nelle composizioni astratte, dove, tuttavia, i pezzi di carta sembrano acquisire quasi autonomia, divengono significanti assoluti e ognuno è una metafora. La distanza tra essi, infatti,aumenta, è palpabile: questi brandelli “respirano”, si adagiano sul quadro, non necessitando di una relazione per acquisire significato. A mio parere, quindi, più che di astratto si dovrebbe parlare del prodotto di un occhio in movimento, assimilabile all’obiettivo di una macchina fotografica: avvicinandosi alle cose, le indaga quasi microscopicamente. Il richiamo alle macrofotografie, ai close-up, è notevole: il dettaglio, ripreso in modo ravvicinato, non è più oggetto, ma diventa grafica e parla d’altro, perdendo la propria identità.

Ci troviamo, quindi, di fronte ad un’erede degli informali materici; erede ma non epigone: assimilata la lezione, l’artista va oltre, conferendo nuovamente forma all’informe, quasi vi fosse una necessità di dar ordine al caos in cui stagna il reale. Ed è in questo atteggiamento che troviamo il secondo elemento di connessione tra i lavori esposti, i quali, sempre più, acquistano coerenza solo se letti all’interno di un corpus, di un insieme, perché declinazioni della stessa mente. Essi nascono dall’esigenza conoscere. Si tratta di un processo tortuoso, eppure condotto lucidamente, analiticamente, da un pensiero che necessita di scomporre, smontare quello che vede (e la vista si identifica nella vita), facendolo proprio, per comprenderlo. Un atto chirurgico, con sapore d’autopsia, ma allo stesso tempo teneramente infantile: non richiama forse l’istintivo gesto di molti bambini quando smontano un oggetto “misterioso” per cercare di ipotizzarne il funzionamento? Ma l’artista non si limita a spargere dei pezzi sul pavimento: restituisce alla realtà ciò che le ha sottratto, avendolo compreso nella sua essenza, ricostruendolo, non secondo forme ideali o utopiche, ma solo in base al proprio sentire. Quello che ci ritorna è l’essenza della realtà, in quanto sua interpretazione autentica (e quindi quanto mai vera), e allo stesso tempo un messaggio con un forte intento paideutico. Ogni quadro è un invito a indagare, ad andare oltre, sotto la superficie delle cose, risvegliare una mente troppo spesso assopita da un’esistenza snaturata, dalla vita d’oggi.

Si spiegano allora i colori caldi (gialli, arancioni: espressioni della pura vitalità per Kandinskij) che paradossalmente caratterizzano i volti più martoriati, duri, sezionati e ricomposti in modo volutamente incerto, vicini più a novelli Frankenstein, che non a esseri umani: zombie, riassemblati con un piglio di cinismo. E dall’altro lato, i blu, i versi, freddi, a volte acidi, a fondersi in visioni quasi eteree di visi dominati da pace e serenità talmente profonde da risultare inquietanti. E tutto entra in simbiosi con i quadri vicini, tramite una fitta rete di richiami e scambi, intrecci vari e mai definitivi: non si finisce mai di scoprire nuove relazioni. Il corpus esposto è quindi un insieme in divenire, pulsante, vivo, capace di comunicare con lo spettatore, con forza, in un intimo e serrato dialogo. Ci si accorge, ad un tratto, di come sia possibile passare da un quadro all’altro senza avvertire pause o rotture: si ha la sensazione che l’opera che si ha appena finito d’osservare si sia riversata nella successiva.

A questo proposito, appunto, ho paragonato la parete ad una pagina, le cui parole paiono tutte diverse tra loro, pur non essendo altro che la combinazione di un unico alfabeto. In un certo senso in questa sala è esposto un solo quadro: ogni singolo lavoro, in realtà, è un attimo della vita dell’artista che acquisisce una determinata forma, combinando in modi sempre differenti le stesse componenti. Ogni lavoro è un’emozione, e come tale, sempre diversa dalle altre, ma sempre emozione.

Concludo con una questione, che mi ha suscitato la visione dei lavori prima e durante l’allestimento della mostra. Ognuno di questi quadri è una declinazione della mente dell’artista, che trasferisce un attimo di sé sulla superficie dell’opera.

Di conseguenza, il corpus qui esposto, non è solo un colossale autoritratto?

Simone Santilli

Caterina Fasolo: presentazione mostra “Topografie” a Casa Gaia

Mostra Topografie di Portobuffolé, maggio 2009

Estratto dalla critica di Caterina Fasolo

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La giovane critica Caterina Fasolo

“I lavori di Tiziana Pauletto nascono dall’interazione di due elementi: pittura e materia. In un’accezione topografica si potrebbe affermare che tali elementi si fondono e organizzano tra loro come l’architettura fa con l’ambiente naturale. Il paesaggio incontaminato dal quale parte l’artista è quello del fondo acrilico già figurato, o semplicemente macchiato nel caso degli astratti, che viene successivamente riempito, o meglio costruito, da brandelli di carta acquerellata i quali, sovrapposti sapientemente al dipinto sottostante, formano un mosaico di colori e forme. L’ulteriore ritorno al pennello e alla pittura, nella fase finale della creazione, e il gioco di trasparenze reso dall’uso della colla rappresentano l’atto compositivo in grado di dare ordine al caos, unità nella molteplicità.E’ così che nascono i volti-maschera, in cui figura e sfondo si mescolano rendendo quasi impalpabili i confini tra l’uno e l’altro e la cui intensità emotiva è rafforzata dalla vibrazione dei colori e dagli effetti di luce; le facciate di edifici senza identità le cui porte e finestre semiaperte invitano ad entrare e a scoprire le storie racchiuse tra quei muri segnati dal tempo ed infine la serie di astratti in cui materia e pittura si fondono al punto da annullarsi l’uno nell’altro. In questo percorso dalla figurazione all’astratto si potrebbe ipotizzare una progressiva semplificazione dei soggetti affrontati dall’artista, eppure ci rendiamo conto che non vi è semplificazione né riduzione formale, poiché non è il soggetto ad essere rilevante nell’opera di Tiziana Pauletto ma la sua capacità di trasformarsi davanti all’osservatore. L’effetto è quello di un volo aereo. Guardando dall’alto lo spettatore riesce a vedere solamente linee confuse che si intersecano formando disegni imprevedibili, ma avvicinandosi comincia a riconoscere la materia di cui sono fatti tali disegni, allora le linee diventano fiumi, strade che a loro volta delimitano campi o città. A quel punto il disegno unitario che si poteva vedere ad una certa distanza si frammenta in una molteplicità di segni, indipendenti tra loro eppure complementari in una sola composizione. Allo stesso modo le opere di Tiziana Pauletto vivono nell’aggregazione di molti elementi, di luci, di colori, di materie che si rincorrono in un gioco di attrazione e repulsione, di un caos sotterraneo che brulica sotto la superficie dell’opera.”

Caterina Fasolo

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La conclusione del discorso, al centro della foto, da sinistra: Mario Santilli, Caterina Fasolo, Tiziana Pauletto