Ecco alcune immagini. L’abbinamento dei miei muri con le opere di Francesca Sist che fa un pachtwork fuori schema è riuscita. Per quanto mi riguarda ho esposto una serie di muri e il primo Omaggio a Michelangelo, che troverà ulteriore sviluppo nella mostra di Limana dell’ottobre 2011.
La mostra è stata presentata da me e rallegrata dalle musiche del quintetto Il Fondaco Sonoro.
Di seguito l’apparato critico.
TRAME
Trame e orditi svelati da fili in libertà o racconti sussurrati da muri abbandonati
Questa mostra nasce grazie ad un reciproco apprezzamento tra le due artiste che operano per certi versi in modo simile, anche se con materiali diversi, i quali presuppongono ovviamente tecniche di lavorazione proprie.
FRANCESCA SIST
Sonia Delaunay, importante creatrice di tessuti, i cui disegni erano talmente apprezzati a Parigi da suscitare la gelosia del marito, il più famoso Robert, pittore cubista, ebbe a dire : “C’è un’ingiustizia flagrante fra noi due, io sono stata classificata nelle arti decorative e non hanno voluto ammettere che fossi una pittrice in ogni senso.”
Francesca Sist si occupa di tessuto, meglio di pachtwork, ma non per questo si deve considerare il suo lavoro qualcosa di strettamente “artigianale” o di prettamente femminile. Indubbiamente il patchwork si colloca in un ambito creativo di tipo artigianale, in quanto necessita di abilità pratiche specifiche, ma in quale arte ci si può cimentare se non si è abili nella sua tecnica? Eppure questa pratica, soprattutto se esercitata alla maniera di Francesca, cioè con modalità non tradizionali e non hobbistiche, può produrre arte.
Facciamo un passo indietro occupandoci brevemente della storia del patchwork ovvero di quel lavoro con toppe di tessuto, o meglio, dell’assemblaggio di toppe di tela secondo un disegno prefissato.
La parola solitamente evoca nella gran parte delle persone le coperte a pezze di derivazione americana o al massimo dei pannelli decorativi da muro. Se è vero che il patchwork americano oggi fa scuola in tutto il mondo, va detto anche che la necessità di trasformare materiali tessili di recupero in manufatti utili alla vita quotidiana è diffusa in tutto il mondo e ha origini antiche: dall’Africa occidentale dove si tessono nastri di tessuto assemblati in lunghe strisce a creare coperte, turbanti e abiti, agli indiani dell’America centrale, fino ai kimono giapponesi.
Il trapunto ha origini intorno al 5000 A.C. in Cina e in Egitto. Poi tocca al medioevo europeo che lo conosce grazie ai crociati che lo portano con sé dal medioriente.
La trapunta da letto esiste già presso i Romani che la chiamano culcita e che nel medioevo diventa una specie di insieme di copriletto e materasso che successivamente prende il nome di quilt. Un altro esempio di patchwork ante litteram è la maschera di Arlecchino. Nel 1600 i ricchi inglesi utilizzano i chintz indiani per le loro trapunte o per gli arazzi.
Il secolo d’oro è però il 1800 sia in Europa che in America: in Inghilterra prevale la trapunta composta da moltissime piccole toppe, a volte migliaia e addirittura si lavora insieme come in una gara allo stesso lavoro, per cui il patchwork assume anche un valore sociale.
In America, dove la tecnica si è trasferita nel 1700, essa si rinnova e soprattutto, quando con l’indipendenza le manifatture locali producono tessuti autonomamente, i lavori si fanno sempre più belli e creativi tanto da innovare l’intera produzione mondiale. In Inghilterra rimane la produzione a medaglione, mentre nel nuovo mondo si diffonde la composizione a riquadri.
Nel ventesimo secolo gli americani fanno scuola e ormai da qualche decennio il patchwork si è slegato dall’immediatezza dell’uso pratico, inoltre molti musei espongono i lavori tra le altre opere di arte visiva.
Ed ora veniamo alle opere di Francesca Sist: l’artista conosce bene la tecnica al punto di decidere, dopo aver prodotto le tipiche composizioni geometrico/figurative, di andare oltre mettendo allo scoperto il processo di produzione, come dire che lascia vedere ciò che gli altri nascondono: il retro dei suoi lavori ha altrettanta importanza del fronte, non solo, i fili che uniscono le varie toppe, che solitamente vengono ordinatamente tagliati, accorciati, fatti sparire secondo un concetto di ordinata pulizia, nelle sue “tele” sono invece parte in gioco essenziale, compongono l’immagine assieme ai ritagli di stoffa, la costruiscono e la caratterizzano. Da qui il titolo della mostra “Trame”…
Ordire la trama di un racconto significa decidere l’idea che lo conduce, crearne lo svolgimento principale, stabilire un inizio ed una fine, intrecciarne le azioni… Ecco: quest’operazione si manifesta nei pannelli dell’artista e viene svelata; non è coperta dai due ulteriori strati (imbottitura e fodera) che fanno di un lavoro di patchwork un’opera finita.
Per quanto riguarda le composizioni, anche in quest’ambito ci sono novità rispetto alla produzione tradizionale contemporanea spesso legata o a motivi figurativi o geometrici: la pittrice, perché così credo si debba ormai definire Francesca, costruisce indifferentemente paesaggi o affronta il più difficile territorio della composizione astratta. Non soddisfatta dei tessuti che recupera, per gli ultimi lavori ha preparato e tinto lei stessa le stoffe, cotoni italiani sempre e solamente, ottenendo così scampoli di tessuto dalle varie gradazioni che combina in sfumature o per contrasto timbrico e che lega con quei fili che, sciolti e liberi da ogni comando, creano ulteriore movimento in composizioni già di per sé dinamiche.
E’ difficile non utilizzare aggettivi come “fine”, elegante”, un po’ troppo vicini al mondo della sartoria però è vero che, soprattutto le opere dove predominano i neri, sono intriganti, affascinano particolarmente e perdono, pur essendolo, la sembianza del patchwork per assumere quella della pittura, di una buona pittura.
TIZIANA PAULETTO
Per quanto riguarda la mia pittura fornisco alcune note sotto forma di appunti e poi lascio la voce ad una giovane critica, purtroppo precocemente scomparsa, Caterina Fasolo.
I miei quadri, per ora, nascono secondo un procedimento a più strati: inizialmente preparo un fondo in acrilico, spesso figurativo, poi lo “rompo” con l’applicazione di carte veline da me acquerellate precedentemente, infine ritorno sulla superficie col pennello. Mi piace la “casualità guidata” con cui si comporta l’acquerello sulla velina e che è parte determinante della mia produzione.
Ritengo i miei lavori una metafora dell’esistenza, credo di quella di tutti, senz’altro della mia: noi siamo come i muri delle case, costruiti più o meno solidamente, e superiamo ostacoli, riceviamo aggressioni, ma anche godiamo di obiettivi raggiunti e di gioie, come un muro che più volte è ridipinto e rinnovato ma anche subisce le intemperie e risente del passare del tempo. Ecco allora che si formano crepe, che vengono riaggiustate e nelle quali si possono leggere le vicende di quel muro. Quest’ultimo inoltre “parla” di coloro i quali lo hanno frequentato… ma racconta anche di sé: noi siamo un sovrapporsi di esperienze che nel tempo si sedimentano, e a volte riaffiorano inconsapevolmente e sta a noi rielaborarle e agli altri “leggerle” e decidere se accettarle o meno. Lo scavo non finisce mai così come il cambiamento, la crescita è continua…
Sui muri infine spesso si posano ombre: di alberi, di uccelli, di passanti, di veicoli, di case… i nostri pensieri, quelle impressioni o sensazioni fuggevoli che pur hanno grande parte nella nostra quotidiana esistenza e che spesso vorremmo trattenere per goderle, ma l’ineffabile, (uso una parola forte) la felicità è incatturabile.
Prata, 4 luglio 2010 Tiziana Pauletto