Il Duende e Paolo Barbuio – Portogruaro, febbraio 2012

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   Il portogruarese Paolo Barbuio, ritrattista ed esperto di fotografia industriale di livello internazionale, presenta Duende, un percorso fotografico che coglie alcuni momenti delle esibizioni del gruppo di ballo e musica flamenca “La gitana morena” diretto da Sara Buttignol, che egli segue da tempo.

Il duende incarna la forza espressiva e lo spirito del flamenco. Si potrebbe tradurre in modo piuttosto approssimativo con i termini di “demone”, “spirito” o “folletto” e riferirlo a ciò che in ciascun ambiente e in ogni essere umano è legato alle emozioni più semplici e  primordiali, le più profonde e istintive, tra cui il dolore e la gioia. Il duende è inoltre solitamente associato alla notte, tempo e luogo del mistero e delle angosce, zona in cui l’animo, non confuso dai suoni e dai colori, può scoprirsi e guardarsi: il flamenco opera come  duende sconvolgendo l’intimo, travolgendolo con il suo flusso di dolore e di rabbia fino a condurlo alla catarsi.

Scrive il poeta Garcia Lorca: “Tutto ciò che ha suoni scuri ha duende. Questi suoni oscuri sono il mistero, le radici che affondano nel limo che tutti noi conosciamo, che tutti ignoriamo, ma da dove proviene ciò che è sostanziale nell’arte. Il duende è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare. Ho sentito dire a un vecchio maestro di chitarra: il duende non sta nella gola; il duende sale interiormente dalla pianta dei piedi. Vale a dire che non è questione di facoltà, bensì di autentico estilo vivo; ovvero di sangue…”

E’ la ricerca del duende  nelle forme del flamenco che intriga Paolo Barbuio: il ballo è l’esternazione dell’anima che soffre, che urla e si lamenta.  Gli scatti del portogruarese, infatti, non colgono bellezze stereotipe o pose scontate, pur soffermandosi su mosse tipiche flamenche, ma catturano piuttosto alcuni momenti altamente espressivi dei corpi tesi, dei visi tirati o corrucciati, a volte distorti. D’altronde nel ballo è il corpo che parla, si snoda e si sporge o ruota secondo un impulso segreto e non noto allo spettatore. I piedi seguono linee inafferrabili e le braccia e le mani traiettorie circolari  o diagonali vibranti, sicure e rapide, seguite o bloccate da pause secche. Sono linee che si aprono e si richiudono su di sé in un disegno misterioso, ma coinvolgente.

Per il fotografo l’impresa è impegnativa, perché il flamenco non è solo movimento ma anche voce e musica: baile, cante e toque non prescindono l’uno dall’altro: il lamento, il grido è un tutt’uno di  suono, parola e figura. Alla fotografia rimane la figura.

 Come restituire allora la drammaticità dell’insieme?

Barbuio sceglie il bianco e nero: in questo modo annulla la rumorosità delle tinte sgargianti dei costumi, pulisce la scena dalle interferenze coloristiche dell’ambiente circostante i ballerini e i suonatori. Lascia la narrazione alle forme del corpo e al disegno che esse tessono, dà al pensiero la possibilità di immaginare, crea il silenzio perché si oda la voce uscire dalle bocche alterate e il suono della chitarra stridente e aspro ci raggiunga; l’occhio indovini infine il ritmo delle percussioni dal gesto del ballerino!

Ma ciò che dice dell’arte di Barbuio, della sua idea dell’esistenza, così come esce dal racconto flamenco, è l’inquadratura. Essa è l’impronta di una realtà personale che tradisce il pensiero del fotografo: egli sceglie infatti di ritagliare dal continuum della realtà, in questo caso, dall’evento flamenco nel suo farsi, un certo particolare, una certa mossa, un certo punto di vista.

 Il dettaglio, il gesto, lo sguardo, catturati nello scatto, diventano exemplum di una realtà più vasta, della quale il fotografo dà la sua personale definizione in quanto essi sono stati scelti tra tanti altri frammenti di realtà.

E’ una verità: quella di Paolo Barbuio.  Il flamenco dell’artista portogruarese è quindi la sua visione del flamenco (e forse anche dell’esperienza umana?): si coglie la sofferenza dell’atto nelle espressioni contratte di ballerini e cantanti; rari i momenti di distensione.

Emerge da queste foto un mondo di solitudine e di dolore: anche se in gruppo, gli individui sembrano tra loro lontani, chiusi nel loro urlo, isolati nel mistero dell’ombra “come carbon che fiamma rende” (Dante, Paradiso XIV,52).

Nel mese di gennaio dell’anno 2012                                                                                             Tiziana Pauletto

CARLO FONTANELLA il 14 aprile 2012 – PRAVISDOMINI Riflessioni per la presentazione della mostra

Carlo Fontanella ci coinvolge in un gioco di racconti e di rimandi, di ambiguità che rispecchiano non solo l’ambivalenza dell’esistenza individuale, ma anche della attuale società nel suo condurre una vita quotidiana, spesso contraddittoria nei principi stessi che la guidano. Vorrei soffermarmi in primis sull’aspetto esteriore delle opere: lo scultore sceglie una soluzione che sa di pittura nel proporsi in pannelli quadrati di spessore e consistenza simili alle tele Gallery, oggi comunemente adoperate dai pittori, di colore bianco; potremmo invece parlare di altorilievi per quanto le raffigurazioni sporgono dalla superficie del supporto e quindi di scultura. Di fatto però l’effetto della luce radente, tipico già di molta sua produzione, che dà vita e significato alle forme che lo scultore mette in essere, è pittorico nel digradare delle sfumature. Una seconda ambiguità sta nel collocare storie d’oggi in un biancore (non candido) che ci ricorda antichi rilievi consumati dalla pioggia o, in altri casi, geometrie neoclassiche, pulite e nitide, allontanando apparentemente la riflessione in una dimensione ideale, non concreta. Gli oggetti, ben riconoscibili, prendono il volo o comunque non hanno un contatto con la realtà (terra, cielo, pavimento, soffitto): sono sospesi – la libreria è a mezza terra, i libri volano, il pallone è bloccato in un riquadro…- essi acquisiscono valore simbolico, diventano idee. La lontananza dal concreto, e quindi la volontà dichiarata di proporsi come oggetti di pensiero e non come “ritratti della realtà” o manufatti decorativi, viene anche dai titoli, chiave di lettura dell’opera, volutamente coniugati spesso in latino e quindi non immediatamente decifrabili, non oggi almeno e non dalle giovani generazioni, come a dire che il messaggio va cercato: immagine e pensiero devono ulteriormente articolarsi nella mente dello spettatore che non può limitarsi ad una fruizione dell’opera immediatamente estetica o di sensazione. Una dimensione non trascurabile in questi lavori è inoltre il senso del tempo che se da un lato consiste nel tempo utile a “leggere” il racconto, da sinistra a destra o dal di fuori al dentro e viceversa, è anche quello del progressivo mutare della coscienza, del formarsi di un pensiero che in partenza era solo nella mente e nelle intenzioni dell’artista e che poi scivola ed entra nel bagaglio di idee del fruitore. Il passaggio avviene con dolcezza, quasi suggerito dalle forme avvolte dal bianco colore che Kandinskij definiva “una sorta di silenzio che potrebbe essere compreso”.

Tiziana Pauletto