Simone Santilli: presentazione mostra a Fontanafredda, 7 Giugno 2008, Palazzo Ca’ Anselmi

Un momento della presentazione di Simone Santilli
Un momento della presentazione di Simone Santilli

Ciò che l’artista espone oggi è una selezione di opere che emergono subito per la loro diversità: volti, paesaggi e astratti, soggetti alquanto lontani gli uni dagli altri. Eppure tale dato è soltanto apparente. A dimostrarlo, infatti, vuol essere l’allestimento della mostra: una sequenza che vede i lavori alternarsi senza distinzioni di genere. Non si è voluto dedicare una parete al paesaggio, una ai volti, una agli astratti. Al contrario, le opere sono accostate solo in base al messaggio che veicolano, il quale scaturisce dalla relazione delle une con le altre, all’emozione che suscitano: un sentire che si riversa di opera in opera, come un flusso inestinguibile. La mostra non prevede quindi una direzione: qualsiasi punto è buono per lasciarsi trasportare e scorrere la parete come la pagina di un romanzo, la corsia di una piscina, da attraversare in apnea per riprendere fiato solamente una volta in fondo, e subito tuffarsi nella successiva; e poi ripercorrere il tutto, magari al contrario, per assaporarne pienamente l’aroma. Tuttavia, un insieme d’opere così distanti, a prima vista, tra loro, può sembrare dispersivo, frammentario, discontinuo.

Viene allora spontaneo chiedersi: l’artista è ancora immaturo? Forse non sa ancora applicarsi con efficacia e costanza ad una data tipologia? E’ ancora alla ricerca di un “marchio di fabbrica”? Probabilmente la questione va affrontata dal lato opposto: non esiste un soggetto che sia in grado di contenerne la sensibilità, vena creativa che trabocca, esonda invadendo più generi senza porsi alcuna preoccupazione stilistica. Tutti vengono approcciati allo stesso modo. Infatti, il primo elemento che emerge come tratto comune tra questi lavori, come in tutta la produzione dell’artista, è la materia, il processo, l’ossatura dei quadri: la tecnica. Si tratta di un procedimento costruttivo per cui, dall’intelligente compenetrazione di carta e pittura, nasce un prodotto finito che non è più definibile come collage o pittura in senso lato, ma può solamente chiamarsi “mosaico”. Ogni opera è composta di tasselli cartacei, a loro volta ricavati da grandi fogli studiati per quanto concerne gli accostamenti cromatici, la stesura dei pigmenti e l’attenzione alle combinazioni di velature successive: si tratta praticamente di opere a sé, di “pre-opere”. Strappati secondo le esigenze compositive e ricollocati, i brandelli cartacei di uno stesso foglio vanno a costituire figure anche lontanissime tra loro: lembi di carne, volti emaciati, oppure finestre, pareti, fogliame, sentieri, colline, orizzonti, cieli. Ma, perché ciò avvenga, essi devono entrare in relazione. Qui entra in gioco la pittura: essa è il collante, lo strumento con cui rifinire la composizione, sottolinearne le parti significative, plasmare la materia confusa conferendole forma. E’ un atto d’ordine.

Il pennello di Tiziana Pauletto non dipinge, ma cuce: è l’ago di un sarto intento a creare un pregiato arazzo. Volti e vedute brulicano, vibrano per la fitta presenza di frammenti, pressati gli uni contro gli altri, che rendono il quadro letteralmente materico, conferendogli volume, increspandone la superficie. Su essa la luce vi crea affascinanti giochi di chiaroscuri, drammatizza i contrasti, aumenta l’impatto e la profondità di ciascun lavoro. La luce dell’ambiente, quindi è parte integrante dell’opera, la scolpisce, completandola. Quanto affermato si può riscontrare anche nelle composizioni astratte, dove, tuttavia, i pezzi di carta sembrano acquisire quasi autonomia, divengono significanti assoluti e ognuno è una metafora. La distanza tra essi, infatti,aumenta, è palpabile: questi brandelli “respirano”, si adagiano sul quadro, non necessitando di una relazione per acquisire significato. A mio parere, quindi, più che di astratto si dovrebbe parlare del prodotto di un occhio in movimento, assimilabile all’obiettivo di una macchina fotografica: avvicinandosi alle cose, le indaga quasi microscopicamente. Il richiamo alle macrofotografie, ai close-up, è notevole: il dettaglio, ripreso in modo ravvicinato, non è più oggetto, ma diventa grafica e parla d’altro, perdendo la propria identità.

Ci troviamo, quindi, di fronte ad un’erede degli informali materici; erede ma non epigone: assimilata la lezione, l’artista va oltre, conferendo nuovamente forma all’informe, quasi vi fosse una necessità di dar ordine al caos in cui stagna il reale. Ed è in questo atteggiamento che troviamo il secondo elemento di connessione tra i lavori esposti, i quali, sempre più, acquistano coerenza solo se letti all’interno di un corpus, di un insieme, perché declinazioni della stessa mente. Essi nascono dall’esigenza conoscere. Si tratta di un processo tortuoso, eppure condotto lucidamente, analiticamente, da un pensiero che necessita di scomporre, smontare quello che vede (e la vista si identifica nella vita), facendolo proprio, per comprenderlo. Un atto chirurgico, con sapore d’autopsia, ma allo stesso tempo teneramente infantile: non richiama forse l’istintivo gesto di molti bambini quando smontano un oggetto “misterioso” per cercare di ipotizzarne il funzionamento? Ma l’artista non si limita a spargere dei pezzi sul pavimento: restituisce alla realtà ciò che le ha sottratto, avendolo compreso nella sua essenza, ricostruendolo, non secondo forme ideali o utopiche, ma solo in base al proprio sentire. Quello che ci ritorna è l’essenza della realtà, in quanto sua interpretazione autentica (e quindi quanto mai vera), e allo stesso tempo un messaggio con un forte intento paideutico. Ogni quadro è un invito a indagare, ad andare oltre, sotto la superficie delle cose, risvegliare una mente troppo spesso assopita da un’esistenza snaturata, dalla vita d’oggi.

Si spiegano allora i colori caldi (gialli, arancioni: espressioni della pura vitalità per Kandinskij) che paradossalmente caratterizzano i volti più martoriati, duri, sezionati e ricomposti in modo volutamente incerto, vicini più a novelli Frankenstein, che non a esseri umani: zombie, riassemblati con un piglio di cinismo. E dall’altro lato, i blu, i versi, freddi, a volte acidi, a fondersi in visioni quasi eteree di visi dominati da pace e serenità talmente profonde da risultare inquietanti. E tutto entra in simbiosi con i quadri vicini, tramite una fitta rete di richiami e scambi, intrecci vari e mai definitivi: non si finisce mai di scoprire nuove relazioni. Il corpus esposto è quindi un insieme in divenire, pulsante, vivo, capace di comunicare con lo spettatore, con forza, in un intimo e serrato dialogo. Ci si accorge, ad un tratto, di come sia possibile passare da un quadro all’altro senza avvertire pause o rotture: si ha la sensazione che l’opera che si ha appena finito d’osservare si sia riversata nella successiva.

A questo proposito, appunto, ho paragonato la parete ad una pagina, le cui parole paiono tutte diverse tra loro, pur non essendo altro che la combinazione di un unico alfabeto. In un certo senso in questa sala è esposto un solo quadro: ogni singolo lavoro, in realtà, è un attimo della vita dell’artista che acquisisce una determinata forma, combinando in modi sempre differenti le stesse componenti. Ogni lavoro è un’emozione, e come tale, sempre diversa dalle altre, ma sempre emozione.

Concludo con una questione, che mi ha suscitato la visione dei lavori prima e durante l’allestimento della mostra. Ognuno di questi quadri è una declinazione della mente dell’artista, che trasferisce un attimo di sé sulla superficie dell’opera.

Di conseguenza, il corpus qui esposto, non è solo un colossale autoritratto?

Simone Santilli