Alberto Pasqual e Walter Zaramella a Gruaro il 3 settembre 2011

Ecco di seguito la mia presentazione alla mostra dei due validi artisti e qualche foto delle opere. le foto sono di Mario Santilli

ALBERTO PASQUAL GRUARO 2011

Spesso oggi lo scultore che sceglie il metallo, in particolare ferro o acciaio,  compone le sue opere per assemblaggio, utilizzando parti d’oggetti o facendo produrre manufatti appositamente studiati: è l’arte del NON FARE, il NOT MAKING; in poche parole lo scultore è regista e progettista di un’opera che fa realizzare a chi è più bravo di lui nella tecnica della lavorazione del metallo. Non è così Alberto Pasqual che pur ha sperimentato la condizione di esecutore e compartecipe di un progetto, quello del monumento a Marco Pantani che si trova sulla salita del Montirolo in Valtellina, progettato da Michele Biz e Alessandro Broggio.

L’artista sacilese disegna e realizza le sue opere, attualmente e principalmente in ferro (ma lavora anche bronzo e terra), avvalendosi delle sue ottime competenze tecnico-esecutive legate alla professione che svolge: il fabbro.

Se si guarda la produzione artistica dal medioevo ad oggi, sono rari gli scultori che hanno scelto il ferro come materiale per esprimersi, tanto che esso, classificato nelle arti minori come “ferro battuto”,  dal XII secolo è stato utilizzato soprattutto per inferriate e cancelli fino alle decorazioni liberty,  e sono pochissimi i contemporanei cimentatisi nella scultura in ferro a tutto tondo. La ragione potrebbe essere legata  al suo peso che ne limita la manovrabilità, alla tendenza ad arrugginirsi, o forse, più probabilmente, alle difficoltà di lavorazione.

Uno dei valori aggiunti delle sculture di Pasqual sta nel mettersi alla prova con una materia non canonica e nel farla uscire con successo dagli usi consueti, sfruttando il fuoco per plasmare, modellare, tagliare, squarciare  il blocco come fosse materia docile, quasi una plastilina su cui un dito o un ferro deciso si imprime e scivola.

I pezzi di Pasqual si impongono per una potenza aspra, d’impatto tattile, e fanno scaturire sensazioni e ricordi di fucine, di sudore e visioni di fuoco.

Ed è proprio col fuoco che l’artista lavora  incidendo profondamente il blocco, che si articola in fessure profonde le quali aprono variamente, ma per lo più in linea retta, i volumi. Non si può certamente definire di superficie questa scultura! Lo scultore sacilese non fa parte di quella schiera di artisti che, alla ricerca della leggerezza, riducono il metallo in sottili lamine o fogli svolazzanti: egli lavora sullo slancio in verticale, sul longilineo, mi riferisco in particolare ai guerrieri, rispettando la fierezza  del ferro e agisce sulla sua massa, ma non toglie sostanza. Le sue figure, guerrieri o parallepipedi, sezioni di sfera, ecc. interagiscono energicamente con lo spazio circostante, fendono l’aria, la sferzano anche quando predomina lo sviluppo in altezza: essi si mostrano allo spettatore come monoliti forati e consumati dall’erosione di acqua e vento, come certi calcari carsici, metafore di una lotta strenua per la vita, riparati a malapena dal loro scudo e sprovvisti di elmo, privi  (o privati?) spesso degli arti, essenziali nel loro significato di resistenza.

Un filo robusto lega due produzioni apparentemente distanti, quella figurativa degli anni passati e quella geometrizzante “astratta” attuale, che è a mio parere, senza nulla togliere alla precedente, valida e comunicativa, molto più personale e intrigante: l’idea della guerra, e per contrasto  della vita, intesa come battaglia perla sopravvivenza. Ipezzi e i guerrieri sembrano la risultanza di uno scontro titanico, superstiti di una civiltà futura sconvolta i primi, quasi personaggi mitologici i secondi.

E’ un impatto che provoca lacerazioni, è la visione di ferite che lasciano guardare oltre i corpi squassati,  a volte il taglio si fa foro, oppure sono squarci che si rimarginano lasciando scanalature e abrasioni che articolano superfici lucide. Ne vengono effetti di bagliori e oscurità, di chiaroscuro accentuato che amplificano la drammaticità.

I tagli e le ferite quindi sono la sostanza, la parte ineludibile,  integrante e complementare, delle geometrie pulite di parallelepipedi e di cerchi, dallo scudo del guerriero alla sezione di sfera, come a dire che la nostra esistenza è insieme tranquillità e inquietudine, sistema e ribellione, sofferenza e serenità, unione e spaccatura.

Infine il colore: siamo abituati all’effetto delle terre e del bronzo, ma il nero del ferro, e la ruggine che assume varie sfumature, sono suggestivi; in particolare il nero, o l’effetto ematite nelle sculture lucidate, è potente, conferisce  ulteriore vigore  che produce uno scuotimento interiore, ben oltre i significati metaforico-simbolici, pur importanti, che l’artista dà ai suoi lavori.

Gruaro 3 settembre 2011                                                                   Tiziana Pauletto

WALTER ZARAMELLA GRUARO 3 SETTEMBRE 2011

Grigi colorati, bruni e ocre incontrano blu e azzurri cielo, fasce dalle campiture marezzate dischiudono nel loro cuore una figurazione apparentemente accennata: agglomerati di case, portoni di vecchie officine ormai dismesse, panni stesi sopra strette vie di borghi popolari, alberi maestosi ben ramificati, trattati a pennello e spatola. La zona centrale di ogni dipinto, nelle sue forme inizialmente non percepite come tali, ma come sensazioni di colore, affiora gradualmente alla consapevolezza dello sguardo, grazie alle tinte progressivamente più chiare dello sfondo. I bianchi, a volte lievemente colorati, altre volte candidi,  ben dosati e spesso trasparenti,  illuminanola scena. Lineeaccennate  da un pennello veloce e ripartizioni geometriche non invadenti disciplinano una materia informale. La generale predilezione per un andamento orizzontale dispone, assieme a tinte mai eccessivamente urlate, alla tranquillità e alla riflessione.

Un sussulto si  accenna quando l’occhio si approssima al centro più dinamico e costruito con  zone di colore sfrangiate e colpi di pennello o spatola o rullo,  che muovono la superficie fino a placarsi nelle zone marginali del quadro.

L’oggetto, che è argomento di ogni opera, si presenta quindi come un fantasma, una apparizione sfuggente all’occhio, ma forte e intensa che trattiene la visione e costringe l’osservazione ad una penetrazione progressiva, che suscita e porta in superficie emozioni o immagini a volte sepolte nel profondo.

Esse  emergono dal flusso ininterrotto dei ricordi, spesso vaghi e inafferrabili: è un portone di officina dove si riparavano le biciclette che ci riporta al lavoro d’artigiano che vi si svolgeva e al rapporto personale diretto tra  proprietario del mezzo e  meccanico. E quasi sentiamo i rumori, respiriamo l’odore di copertone, d’olio minerale, ci immaginiamo le parole e i discorsi sull’ultima partita della squadra locale, o sul maltempo ecc. che immancabilmente coinvolgevano i due, oppure sono lenzuola stese che ci recano voci di donne, e via così, fino ad alberi maestosi sotto i quali molti di noi hanno riposato, rievocanti una natura goduta e godibile… Insomma la nostra immaginazione viene catturata dai luoghi o dagli oggetti ricreati dal pennello di Zaramella e viaggia aiutata proprio da quelle figure accennate che non la obbligano in forme nette, guidata nelle sensazioni dalle pennellate e dalle spatolate che cancellano ciò che prima c’era. Il nostro è un viaggio libero, ciascuno con i propri personali ricordi e sensazioni, ciascuno nel suo microcosmo interiore, eppure comune a tutti nelle esperienze.

E’ un mondo lontano, sì, lontano nel tempo reale, ma vivissimo nella nostra mente, lirico nel suo presentarsi e modesto, quotidiano nella sua sostanza e perciò ci raggiunge.

Così come è carico di emozioni per l’artista, che ripercorre la sua infanzia, altrettanto importante è per noi in quanto ci riporta a un passato di rapporti umani semplici, veri e cordiali.

Non favole fanciullesche quelle di Zaramella, nemmeno dolciastre e inautentiche commemorazioni: lo dimostra il fatto che nella recente produzione vi siano riprese dall’alto di città moderne e navi all’attracco, testimoni dell’interesse per il contemporaneo e del sentirsi cittadino del mondo attuale.  Potremmo definire queste opere  “paesaggi della memoria e dell’inconscio”: essi scaturiscono credo dalla necessità condivisibile di fissare un passato o un ambiente, quando tratta della natura, sentito più autentico di quello in cui molti di noi vivono, ricreato nella certezza che pur essendo inafferrabile non può essere perduto.

Una situazione simile ma diversa, a mio parere, nei contenuti concettuali, si ricrea in alcuni lavori recentissimi in cui l’impressione visiva è che tutto si muova molto velocemente e fugga da noi come se la dimensione temporale fosse accelerata e ci trovassimo a carpire di quel che passa solo alcune vestigia, in un tentativo improbabile di fermo-immagine. Questi paesaggi ci calano nell’attualità dai ritmi accelerati, che non consente di vivere profondamente ma costringe alla superficie. E’ un percorso appena iniziato, preludio di un ulteriore passo verso la pittura astratta e in direzione di nuove dimensioni di pensiero? Attendiamo con curiosità gli sviluppi.

Gruaro 3 settembre 2011

Guido Fantuz e Dante Turchetto – Ancona 11 settembre 2009 Atelier dell’Arco Amoroso

L’interesse dell’evento “Forma e colore” in cui presentano le loro opere i friulani Guido Fantuz (pittore) e Dante Turchetto (scultore) scaturisce da una serie di motivazioni artistiche e culturali, prime ovviamente le valenze estetiche e la portata contenutistica della mostra stessa: innanzi tutto l’esposizione apre un seppur piccolo spaccato sulle arti figurative friulane, frutto di un’area territoriale piuttosto propositiva e vivace ma solitamente poco nota al di fuori dei suoi confini perché decentrata a livello nazionale e non cittadina: è noto che le città hanno sempre funzionato come motori dell’informazione culturale  e  artistica e del mercato che con essa si muove.

Un secondo motivo di importanza è uno dei principali obiettivi della mostra che nelle intenzioni degli espositori vorrebbe essere la prima di una serie che vedrà, in seconda battuta, artisti marchigiani portare i loro lavori in Friuli Venezia Giulia e viceversa: ne verranno un dialogo e dei viaggi  promettenti  scambi ricchi di spunti e di sviluppi per entrambe le realtà territoriali. A questo proposito va ringraziato Sandro Setti che si è adoperato per portare a buon fine il primo appuntamento, questo di stasera.

Prima di affrontare l’esame delle opere dei due artisti vorrei accennare a due aspetti che fanno luce sulla loro personalità; il primo è l’amicizia che li lega: un sodalizio umano ed artistico, fatto di conversazioni, discussioni, di progetti realizzati insieme, di collaborazione fattiva, anche semplicemente manuale, che dura da circa 23 anni e che ha prodotto anche questa mostra: non ci troviamo oggi perciò di fronte ad una estemporanea associazione. Ad accomunarli inoltre, pur nella  evidente diversità nel sentire, è anche il percorso di crescita artistica sviluppato parallelamente  alla vita professionale. Hanno studiato arte, hanno creato il loro bagaglio estetico e  rinvenuto i loro modelli non attraverso studi tradizionali, ma nell’ esperienza, attraverso incontri e visitazioni dei grandi maestri contemporanei e del passato, e non ultima la frequentazione di  corsi. Entrambi possono enumerare nel loro curricolo numerose ed importanti mostre collettive e personali e in particolare Dante Turchetto è autore di un certo numero di monumenti pubblici tra i quali è anche in progetto un’opera per l’altare della chiesa di Poggio di Ancona e del suo battistero.

Ciò che conta ed è patrimonio di entrambi è la ricerca di una propria maniera di espressione attraverso un’arte, non istinto incontrollato, non stesura di campiture casuali o abbozzo di forme estemporaneo, ma ricerca di ordine, di armonia, con perizia tecnica. Questo è un bisogno impellente, una volta scoperto, ed è allo stesso tempo “virtù” sociale” perché si propone, comunica con gli altri, li fa discutere, li commuove oppure li provoca, creando comunque legami, pensieri, emozioni e lasciando tracce dietro di sé. Il tempo dell’esperienza e della ricerca costituiscono quindi l’essenza dell’opera dei due artisti.

PICT7184GUIDO FANTUZ

Nei quadri di Guido Fantuz natura e umanità sono i temi che si svelano in una dimensione espressiva piuttosto che descrittiva: farfalle dai gialli squillanti e solari, monti e colline immersi in atmosfere lunari o di luci abbaglianti,  nature morte dagli oggetti rosso fuoco, vele che solcano acque e diventano un tutt’uno con esse. Gli elementi scelti per la figurazione appartengono tutti alla quotidianità del pittore, che ama le passeggiate nei boschi o sul litorali e l’immergersi nella natura. I  soggetti,  anche quando fanno parte della tradizione pittorica classica come le nature morte –  perché non dimentichiamolo Fantuz è innanzi tutto pittore –   sono  colti nella loro essenzialità e isolati da un contesto realistico: intravediamo farfalle, case, barche, bottiglie ma nel guardare non è l’oggetto in sé  a colpirci,   quanto l’insieme di emozioni che manda il quadro.

L’elemento di forza delle composizioni di Fantuz è infatti non tanto il tema, il contenuto, ma il colore. Esso è l’attore principale che sconvolge la figurazione e la trasporta in una dimensione altra rispetto alla verosimiglianza con la realtà.

La stesura del colore avviene per colpi veloci –  direi gestuale –  le pennellate sono larghe e materiche, le campiture estese e spesso accostate per contrasto cromatico: blu cobalto, oltremare e di prussia esaltano e sono accesi a loro volta da gialli e  rossi vivi  e vibranti. Il tutto poi  si mitiga grazie ai grigi colorati che creano nella composizione delle pause necessarie.

La linea è loro compagna di gioco. Interviene nella scena sul colore  sfrangiandolo: è un tratto obliquo e spezzato che produce un forte dinamismo, come se da un punto centrale del quadro ci venisse scaraventata addosso una grande energia. Siamo infatti letteralmente tirati all’interno di un dramma, cioè di un’azione che si spiega anche nella genesi e nella lavorazione dell’opera: il pittore stende inizialmente delle campiture di base, solitamente rosse e gialle, poi  forma una figura – pressoché compiuta –  che gradualmente copre e annulla col colore, finché dell’elemento naturalistico si scorgono solo alcune parti: l’artista, dopo esserne appropriato,   trasfigura il dato reale secondo una verità profonda, quella stessa che è dentro ciascuno di noi.

E’ la ricerca di quel qualcosa che si cela dietro all’apparenza delle forme che da sole non soddisfano più, qualcosa che è nello stesso colore e nella linea, che non si riconosce nel simulacro, nel ricordo della realtà, ma le cui radici  sono ancora saldamente aggrappate ad essa. E’quindi  un processo di appropriazione di ciò che si vede per arrivare a ciò che si vive e si sente.

Direi che gli oggetti sono solo l’incipit nella lirica di Guido Fantuz, che esplode fuori dalla tela al ritmo della linea e al timbro del colore, investendoci  con emozioni forti, robuste e a volte inquiete, con sentimenti di  un uomo  che si interroga su se stesso, ma che sa raggiungere anche momenti di autentica serenità e di gioia.

DANTE TURCHETTO

La  scultura  di Dante Turchetto spazia dal legno all’argilla,  dalla pietra al bronzo e, pur nelle diversità legate alle caratteristiche tecniche intrinseche ai materiali che utilizza, le sue opere presentano caratteri formali costanti volti ad  una ricerca di sintesi e di leggerezza, che muovendo da una base figurativa –   il corpo femminile –  è orientata al simbolo.

Un processo di astrazione,  dunque,  tanto più evidente quanto più ci si sposta nella visione dei lavori dalle terrecotte al legno e dal legno al bronzo.

Le opere lignee infatti sono figure femminili slanciate e sottili,  appena  caratterizzate, dai volti lisci e stilizzati; le vesti aderiscono ai corpi, avvolgendoli come pellicole o come veli,  purificandoli dalla loro fisicità ed elevandoli ad icone di una femminilità ideale. All’ascesa è indotto anche l’occhio, che segue le superfici appena increspate o levigate su cui la luce scivola come una brezza, una brezza che a volte si fa vento e percuote le sculture. Esse però come antiche colonne e pilastri si oppongono ad esso, immobili in una ieraticità quasi divina, portatrici di una fiera bellezza e –  quasi dee di un Olimpo contemporaneo –  si isolano dallo  spazio circostante,  immuni allo scorrere del tempo.

Un discorso apparentemente diverso va intrapreso per i piccoli bronzi che qui sono esposti. Turchetto con il metallo si spinge oltre nella conquista della leggerezza. Queste opere nascono in un unico esemplare in quanto il modello iniziale in cera è plasmato direttamente, comprese le incisioni che corrono lungo le superfici, e non è un calco: è già esso stesso quindi una forma compiuta che viene sacrificata nella fusione. Se le forme ci riportano ad un ideale di grazia e di spiritualità,  l’idea da cui hanno origine i bronzi sembra opposta a quella che suggeriscono le opere lignee o le terre:  in essi infatti non appare protagonista la figura, cioè il pieno, ma la sua impronta, ciò che la riveste. L’attore principale quindi dovrebbe essere il vuoto. In realtà esso non è tale, non è vuoto, perché il velo non è veste senza un corpo, anche se solo immaginato e questi lavori indubbiamente svelano, nella loro modellazione, un corpo, o meglio, la sua memoria. Allo stesso tempo sono fogli leggeri, aperti, illuminati su un lato, dolcemente e profondamente chiaroscurati nell’altro: testimoniano un corpo che non c’è, ma che si fa percepire, quasi fossero una “Sindone”. Essi ci immergono in un mondo ancora una volta divino, aereo e sfuggente, a noi precluso perché privi di tanta grazia e forza.

Forza infatti sono queste divine presenze, fieramente salde nel soffio del divenire, emblemi di costanza di stile e fedeltà ad un modello di bellezza. Turchetto ce li propone e  mostra così di essere un artista forte.

Ancona 11 settembre 2009                                                                                        Tiziana Pauletto